Paolo Ruffini disturba il salotto buono del cinema italiano

Twitter, lasciatevelo dire, è un salotto radical chic. Basterebbe spiare i dati della scolarizzazione degli utenti, la percentuale alta d’appartenenza a ceti sociali alti, l’essere allo stesso tempo d’èlite e di massa, ma con uno squilibrio evidente tra chi è molto attivo e chi è decisamente passivo.

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Così, è diventato sempre più il nido dove ha continuato a fiorire il politicamente corretto, la moralità a buon prezzo, il sarcasmo facile e dozzinale, il linciaggio mascherato.

Difficile che si trovi il coraggio di essere originali sui social, quasi impossibile che accada anche su quello in cui si cinguetta: è così facile portare a casa followers se si segue l’esempio di “quelli bravi”. Sparare sulla croce rossa, sulle vittime predestinate, è lo sport più popolare e redditizio. Mi autodenuncio, per capirci: me la sono presa con una battuta banale con Giovanardi e Rotondi. Il secondo mi ha risposto con classe e ironia: altri avrebbero scatenato l’inferno, io mi sono inchinato alla raffinata controstilettata. Ma ovviamente hanno retwittato più il mio tweet, francamente mediocre (di poco, ma è indicativo).

L’ultimo target su cui sparare è stato Paolo Ruffini. Belloccio, talentoso, è un conduttore tv e un attore, sottovalutato (recuperate Non c’è più niente da fare, un gioiello passato nell’indifferenza del nostro pubblico) per quella toscanità aggressiva e demenziale che non piace nella terra della commedia leziosa, sempre uguale a se stessa, volgare nei contenuti ma timorosa nella forma.

Il giovane ha tante colpe nella gerontocratica Italia: ha avuto successo troppo presto per gli standard tricolori, ha esordito alla regia con produzione Medusa con Fuga di Cervelli a un’età in cui suoi colleghi facevano gli assistenti a grandi maestri (nel migliore dei casi), non sembra volersi fare molto amici e non ama la malinconia o la sofferenza d’autore. Preferisce la gag grossolana ma efficace, la battutaccia per cui ridi vergognandoti un po’, il politicamente scorretto che nel suo esordio sul grande schermo s’è fatto beffe pure dell’handicap. Ecco che, chiamato con Anna Foglietta a condurre la serata dei David 2014, non si è posto limiti. Non ha fatto l’errore di Lillo & Greg, due geni snaturatisi per obbedire alla kermesse rondiana (da Rondi, il decano dei critici ultranovantenne) e alle sue regole. Hanno tentato di “riformarla” dall’interno, con un umorismo incomprensibile per il cinema italiano più parruccone e troppo timido e spaventato per la loro media.

Ruffini se n’è fatto beffe di quelle paure e di quelle regole: non si è dato limiti, ha passato il confine del buon gusto diverse volte, riuscendo però a smuovere quella palude di riti, dichiarazioni tutte uguali (complimenti, però, all’autore della canzone ‘A Verità per la dedica al tifoso napoletano Ciro Esposito) e standing ovation che assomigliano alle alzate e le sedute di una messa cantata.
Ha fatto arrabbiare Marco Bellocchio, maestro tanto grande come artista quanto permaloso come uomo; ha dato della “topa meravigliosa” a Sofia Loren (che non è riuscita a riderne, ma probabilmente solo per motivi chirurgici); ha tenuto, durante la premiazione, il conto del numero dei David vinti da Virzì e Sorrentino, svelando la ragioneria un po’ squallida che c’è dietro certi premi; non ha risparmiato battutacce ad altri, spolverando quell’atmosfera da casa della bisnonna che da decenni, che sembrano secoli, affligge il maggior riconoscimento cinematografico italiano.

Così non sempre ha fatto ridere, ma ha costantemente tenuto alta la mia attenzione e – a giudicare anche dagli insulti in Rete, circostanziati e decisamente accurati – quella di tutti gli spettatori. Sia su RaiMovie, sia poi sulla rete ammiraglia del servizio pubblico, in seconda serata.

Laddove normalmente ci si addormentava, qui si è rimasti ben svegli. Alla coppia Golino-Scamarcio, Ruffini offre subito un rimprovero bonario per il ritardo e il passaggio davanti alla telecamera; al proprio ingresso si concede un minimonologo tipo Oscar, con il pregio della sintesi; abbatte la quinta parete, prendendo in giro gli autori (non sai mai, ai David, quanta colpa abbiano loro e quanta i conduttori per i regolari fallimenti di ogni conduzione). E sa incassare bene i rimproveri, che sia un Sorrentino che offre al linguaggio del corpo il giudizio sulla performance del ragazzo, o quello di Paolo Virzì, che lo richiama alla sua livornesità per riportarlo nei binari (a proposito: che bello il gesto del cineasta di chiamare i colleghi e l’altro Paolo de La grande bellezza per festeggiare insieme).
Ma sorride pure il regista toscano, godendo un po’, se non parecchio, di quella scapigliata provocazione. Di quel coraggio nell’essere se stesso, quando gli sarebbe convenuto, forse anche per la carriera futura, di tenersi su un’allegra medietà, come ha fatto ottimamente quell’attrice eccellente che è Anna Foglietta, bravissima nel non farsi travolgere dalle improvvisazioni del compagno e nel nuotare in acque più tranquille.

Ora tutti se la prendono con lui, Paolo il terribile. E lui, che non ama piacere alla gente che piace, sul suo account twitter, proprio laddove l’hanno massacrato, ha orgogliosamente rilanciato ai suoi 110.000 followers e rotti gli insulti ricevuti.

E allora noi te lo diciamo, senza se e senza ma: bravo Paolo. Ridere e prendere in giro di un cinema che non ha autoironia, è esercizio sano e consigliato. Forse hai esagerato, forse non ti è riuscito tutto: ma meglio provarci che nascondersi.

E fregatene dei professionisti del politicamente corretto. Secondo me hanno riso pure loro, pieni di invidia per non aver corteggiato la Loren. Altro che “bischerata”.

 

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