«Non sono stato io, è stato il mio cervello»

Nell’ultimo decennio le neuroscienze cognitive hanno conosciuto un vero e proprio boom. Lo sviluppo dello studio delle basi neurobiologiche delle nostre abilità mentali più alte – come linguaggio, ragionamento, intenzione, memoria e percezione – è stato tumultuoso. Per “osservare” la relazione tra attività cerebrale e abilità mentali, i neuroscienziati cognitivi utilizzano tecnologie di neuroimaging funzionale che misurano il metabolismo del cervello e che sono ormai entrate nelle aule dei tribunali, sia negli Stati Uniti che in altri paesi. Tra questi anche l’Italia. Una delle applicazioni più controverse di questa metodica è la prova del vizio di mente nel processo penale.

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LE NEUROSCIENZE IN TRIBUNALE – Qual è l’influenza del neuroimaging funzionale nel procedimento penale? Quali sono le questioni che solleva e quali i limiti? Che affidabilità ha la “prova neuroscientifica” e quali sono le difficoltà metodologiche? Il dominio è complesso, e per orientarmi ne parlo con Sofia Moratti, Research Associate nel Law Department dello “European University Institute” di Firenze, esperta di scienza e diritto e di neurodiritto.

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L’IDEA DI RESPONSABILITÀ PERSONALE – L’uso del neuroimaging funzionale nei procedimenti penali solleva reazioni molto diverse. Il dibattito è molto polarizzato: i “neuroscettici” sostengono che assolutamente nulla cambierà nel processo penale, i “neuroentusiasti” sono convinti che le neuroscienze ci costringeranno a ripensare radicalmente concetti quali responsabilità individuale, punibilità e altri pilastri del diritto penale. Mi dice Moratti: «L’idea di responsabilità personale colpevole è uno dei capisaldi del diritto penale moderno. Senza la nozione di responsabilità personale colpevole, il diritto penale non è pensabile, neppure intuitivamente; perlomeno non per chi è nato e cresciuto in una cultura e in un’epoca come le nostre. Penso che l’idea che sia legittimo condannare e punire solo dove vi sia responsabilità personale faccia ormai parte in modo troppo profondo delle nostre intuizioni morali perché la si possa scardinare. Anche se si riuscisse a dimostrare empiricamente l’infondatezza scientifica dell’idea di responsabilità personale, le funzioni della pena sono molteplici: la pena può essere anche strumento di controllo sociale».

NEUROIMAGING, INCAPACITÀ E COLPEVOLEZZA – La discussione sulla fondatezza scientifica dell’idea di responsabilità personale ci porterebbe lontano e su terreni incerti. Qui partirò dal suggerimento di Moratti di tenere fermo il concetto di responsabilità personale, e mi avvicinerò alle questioni sollevate dall’uso del neuroimaging per dimostrare il vizio di mente e per incidere sull’assoggettamento alla pena o sulla determinazione della pena.

AMMISSIBILITÀ DELLA PROVA SCIENTIFICA – Anche chi ha esperienza di processi solo tramite film e tv saprebbe che l’oroscopo o la lettura del palmo della mano non possono essere ammessi in un processo come prove scientifiche. Per essere ammissibile, la prova deve soddisfare precisi criteri. «Nel 1993, con la sentenza Daubert vs. Merrell Dow Pharmaceuticals, la Corte Suprema statunitense ha deliberato che la prova scientifica è ammissibile nel processo solo se lo studio scientifico su cui la prova si basa soddisfa alcune condizioni». Le condizioni sono quattro. (1) Ripetendo lo studio, è possibile replicare i risultati ottenuti? (2) Lo studio è stato oggetto di pubblicazioni peer-reviewed? (3) Il tasso di errore dei metodi utilizzati è accettabile? (4) Le conclusioni dello studio sono generalmente accettate nella comunità scientifica? Nel 2010, una sentenza di Cassazione ha di fatto introdotto questi criteri anche nell’ordinamento italiano.

UNA POSIZIONE INTERMEDIA – Per la prova neuroscientifica dovrebbero valere le medesime condizioni. Dice Moratti: «In alcuni casi recenti, tutti casi di omicidio, il giudice italiano ha ammesso alcune perizie effettuate con risonanza magnetica funzionale come prova dell’imputabilità. Nella sentenza Albertani del 2011, il giudice ha sottolineato come l’ammissione di una perizia basata anche su risultanze di neuroimaging non costituisse “una rivoluzione copernicana in tema di accertamento, valutazione e diagnosi delle patologie mentali”, né un tentativo “di introdurre criteri deterministici da cui inferire automaticamente che ad una certa alterazione morfologica del cervello conseguono certi comportamenti e non altri”». Quindi ammissibilità sì, ma senza che le risultanze del neuroimaging prevalgano automaticamente su eventuali ulteriori prove nel medesimo processo, basate esclusivamente su metodiche tradizionali di indagine neuropsicologica, come ad esempio il colloquio clinico. Una posizione intermedia tra gli estremi dei “neuroscettici” e dei “neuroentusiasti”.

DIFFICOLTÀ INTERPRETATIVE – La sopravvalutazione del potenziale impatto delle neuroscienze sul processo penale potrebbe anche essere conseguenza di scarsa conoscenza dei mezzi tecnici e delle difficoltà interpretative che essi pongono. «Nonostante l’ampio numero di studi già pubblicati, il rapporto cervello-mente-azione rimane uno dei problemi più ostici della scienza, a oggi fondamentalmente insoluto», commenta Moratti. «E poi ci sono i limiti del neuroimaging funzionale come metodica», aggiunge. «Il segnale, per esempio, è una misurazione indiretta dell’attività neuronale. I dati sono elaborati matematicamente e alcune di queste trasformazioni matematiche si basano su assunti che possono essere accolti o rifiutati da approcci metodologici alternativi. I ricercatori evidenziano le aree associate a differenze statisticamente significative, e le aree evidenziate vengono quindi sovrapposte all’immagine di un cervello standard. L’immagine finale che appare in una pubblicazione, quindi, non è una “foto” del cervello ma una rappresentazione visiva di valori matematici mediata dal modello statistico scelto dallo scienziato». E anche una fotografia porrebbe dei problemi interpretativi.

APERTURA, CON CAUTELA – Elencando ulteriori limiti degli studi di neuroimaging funzionale sui quali si basano le metodiche di indagine dell’imputabilità utilizzate nel processo penale, comprenderemo perché il processo interpretativo tenda varie trappole. «Un limite è il basso numero di soggetti coinvolti negli studi e la natura del campione, spesso costituito da studenti universitari – ovvero non necessariamente rappresentativo della popolazione generale. Le conclusioni degli studi si basano su una media di dati raccolti da un gruppo di soggetti, ed è importante osservare che questa media potrebbe non supportare adeguatamente inferenze o predizioni a proposito di singoli individui. Inoltre, la maggior parte di ciò che sappiamo a proposito delle neuroscienze del comportamento è in termini di correlazione, non di causalità. Dagli studi apprendiamo solo che l’attività in una certa regione cerebrale è associata a, o correlata a, un certo comportamento: ma nel processo penale ci interessa sapere se un’alterazione ha causato un comportamento e non solo che i due fenomeni si presentano associati. Un ulteriore fatto di cui tenere conto è che le funzioni cognitive e percettive non hanno una sede sola e ben precisa nel cervello. Ogni area del cervello è polifunzionale, con la sola eccezione, peraltro non ancora data per certa, delle aree sensoriali primarie. Infine, non sappiamo se i risultati di studi effettuati su soggetti sdraiati in una macchina e cui vengono dati dei compiti artificiali, decisi e programmati a tavolino dai ricercatori, si possano generalizzare e allargare ai comportamenti nella vita reale».

LA PERIZIA, SCIENZA NEL PROCESSO – O come specifica Moratti, «scienza in funzione del processo». E questo per le modalità con le quali il neuroimaging funzionale si affaccia nelle aule dei tribunali: attraverso la perizia, che è tutta volta a rispondere ad un preciso quesito che gli viene posto dal difensore dell’imputato, dal giudice o dal pubblico ministero, come ad esempio “Riferisca il perito sulla capacità di intendere e volere al momento della commissione del reato oggetto d’indagine”. «Le neuroscienze così utilizzate devono per forza piegarsi agli assunti impliciti, e inevitabilmente piuttosto rozzi, che il diritto fa circa la psicologia del comportamento umano. Il diritto concepisce la persona come un essere consapevole che, sulla base di stati mentali come desideri, credenze e piani, si forma delle intenzioni ed agisce in base ad esse. Questa è una visione prescientifica del comportamento umano, non necessariamente compatibile con quella delle neuroscienze».

INCAPACITÀ DI INTENDERE E DI VOLERE – Ma c’è un altro nodo che complica ulteriormente lo scenario: quanto e come una patologia neuropsichiatrica incida sulla capacità di intendere e di volere e, dunque, sulla pena. Possono ammettersi casi in cui, pur riscontrando una qualche patologia, non si ritenga legittimo escludere l’imputabilità o ridurre la pena. «Anche dove il soggetto risulti portatore di una patologia tra quelle elencate nella “Bibbia” della psichiatria, il Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM), ciò non implica un automatico riconoscimento dell’incapacità di intendere e volere nel processo», chiarisce Moratti. Naturalmente le perizie neuroscientifiche ereditano anche tutte le possibili trappole delle perizie più tradizionali, come ad esempio permettere a una credenza o a una convenienza di influenzare ipotesi e interpretazioni. Si pensi alle frequenti e rilevanti differenze tra le valutazioni dei periti nel medesimo processo: la difesa può facilmente tendere verso la conferma dell’ipotesi di incapacità totale o parziale, che escluderebbe o diminuirebbe la pena; l’accusa invece in senso contrario.

UN APPROCCIO PRAGMATICO – Conclude Moratti: «Ritengo che la questione della prova neuroscientifica non andrebbe trattata come una problematica a sé, come un nuovissimo, potenziale fattore rivoluzionario per il processo penale che chiama i giuristi a riflessioni completamente inedite, ma come un caso particolare della questione della prova scientifica, intorno alla quale si discute già da vari decenni. Attualmente, il dibattito internazionale sul “neurodiritto” si focalizza sul se e sul come le neuroscienze rivoluzioneranno il diritto e il processo penale. Forse sarebbe più opportuno concentrarsi sull’immediato, prendendo atto del fatto che in diversi paesi (compreso il nostro) ci sono richieste, da parte di avvocati, pubblici ministeri e giudici, di ammettere la prova neuroscientifica nel processo, e che questo tipo di prova è già stata ammessa in alcuni casi. È opportuno estendere e adattare alla questione della prova neuroscientifica le stesse riflessioni in tema di ammissibilità, scientificità e oggettività della prova già fatte per la prova scientifica in genere, sulla quale esiste già molta letteratura».

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