USA, Afghanistan, Iraq e il mito del petrolio

21/07/2009 di John B

Il de bello amerikano è stato spesso spiegato come una guerra colonialista e imperialista mossa dai soliti interessi delle multinazionali. L’oro nero, a detta di chi ne sa sempre un po’ di più, è sempre stato il vero obiettivo di Washington. Ma sarà vero?

Quando gli americani, all’indomani degli attacchi terroristici a New York e a Washington, avviarono la campagna militare contro il regime talebano in Afghanistan, la ‘controinformazione’ non ebbe dubbi: la guerra era stata scatenata per consentire alle compagnie americane di far passare un mastodontico oleodotto attraverso quel territorio, progetto che i talebani osteggiavano. Una raccolta esemplificativa di questa interpretazione si rinviene negli scritti “Le ragioni di una guerra” di Petriccioli o “La vera storia della guerra in Afghanistan”, di Giacché. Tuttavia gli anni passarono, il regime talebano era stato spazzato via, ma questo faraonico oleodotto non si è ancora visto. Che era successo? Gli americani si erano forse scordati del motivo per cui erano andati in Afghanistan? No. Semplicemente non era quello il motivo.

GASDOTTI FANTASMA – Tanto per cominciare, gasdotto e oleodotto non sono la stessa cosa. La ‘controinformazione’ ha avuto gioco facile nel confondere ad arte due progetti molto diversi. Negli anni novanta alcune compagnie come la Unocal Corporation americana e la Bridas argentina valutarono la fattibilità di un progetto di oleodotto destinato a trasportare petrolio dall’Asia Centrale al Pakistan, passando attraverso l’Afghanistan. Questi progetti (alcuni fra i tanti) furono abbandonati ben prima dell’11 settembre 2001, non tanto per la difficoltà di chiudere accordi commerciali con i Talebani, quanto per la preferenza accordata da governi e industrie occidentali ad altre rotte, come quella del Caucaso, che ha il vantaggio (per gli americani) di aggirare del tutto il territorio russo e quello iraniano. Quindi l’oleodotto afghano era un progetto già morto e sepolto ben prima dell’attacco americano ai Talebani, e non è mai resuscitato. C’è poi il gasdotto TAP, Trans Afghanistan Pipeline, gestito dal consorzio CentGas, che si pone l’obiettivo di trasportare il gas (e non il petrolio) dal Mar Caspio all’India. Ma questo progetto era già stato approvato dai Talebani sin dal 1998. Di più, la compagnia americana Unocal che guidava il consorzio Centgas, si ritirò dal programma quello stesso anno, dopo l’approvazione talebana. L’attacco americano, lungi dal favorire la costruzione del gasdotto, l’ha invece ostacolata, al punto che l’intero progetto è rimasto fermo sino al 2006 . E quindi, la TAP non poteva essere motivo dell’attacco americano, in quanto non è vero che i Talebani ne avevano bocciato la costruzione, anzi è vero il contrario. Mischiando parti di una storia (l’oleodotto) con quelle di un’altra storia (il gasdotto) ne è comunque venuto fuori un mito ancora oggi piuttosto diffuso.

DAJE A SADDAM – Poi ci fu l’invasione dell’Iraq, due anni dopo. E anche lì, i soliti noti non esitarono ad affermare che gli Stati Uniti avevano attaccato Saddam per impossessarsi delle immense riserve di petrolio di quel paese. Ancora una volta, però, gli anni passarono e il petrolio iracheno rimaneva tranquillo nei giacimenti, e così è stato fino a oggi, quando il governo locale ha deciso di mettere in vendita le licenze di sfruttamento. Ed ecco la sorpresa: una sola concessione è andata a una compagnia straniera, un consorzio anglo-cinese. Le altre sono rimaste in mano irachena. Le compagnie americane sono rimaste a bocca asciutta. Che è successo? Gli americani si sono scordati il motivo per cui hanno invaso l’Iraq? Certo che no. Anche in questo caso, il motivo non era quello: non era il petrolio. Qualche cifra può aiutare a capire meglio. I giacimenti di petrolio iracheni sono considerati i secondi al mondo, dopo quelli dell’Arabia Saudita. Quanto a produzione, però, gli iracheni sono agli ultimi posti. Nel 2000 producevano circa 2 milioni e mezzo di barili al giorno, nel 2006 erano scesi a circa 2 milioni. I tre fornitori principali di petrolio per gli Stati Uniti sono il Canada, il Messico e l’Arabia Saudita. Il petrolio iracheno rappresenta solo il 5 % delle importazioni americane di petrolio. In particolare, l’importanza del Canada come fornitore è sempre maggiore: nuove tecnologie di estrazione consentono, infatti, di sfruttare i giacimenti canadesi che in passato erano considerati inutilizzabili. I giacimenti del Canada sono ancora più grossi di quelli iracheni (che quindi passerebbero al terzo posto nella graduatoria mondiale).

TEORIE DI RISERVA – Al 2008, la guerra in Iraq aveva raggiunto un costo complessivo valutato in 1300 miliardi di dollari. Con molto meno di quella cifra, ai prezzi che aveva il petrolio prima dell’invasione (intorno ai 30 dollari al barile), gli americani avrebbero potuto comprare tutto il petrolio che hanno consumato nello stesso periodo temporale. Assodato che il petrolio iracheno interessava poco agli americani (e spaventa tutti gli altri produttori, visto che un aumento della produzione di petrolio nel mercato mondiale provocherebbe un crollo dei prezzi e quindi dei guadagni delle altre nazioni produttrici), ecco che c’è la teoria di riserva: in realtà gli americani erano preoccupati dal fatto che Saddam intendeva farsi pagare il petrolio in euro, anziché in dollari. Dato che la circolazione del dollaro rappresenta una fonte di ricavi indispensabile per sostenere l’economia americana, una simile mossa – sempre secondo questa teoria – avrebbe messo in ginocchio gli Stati Uniti. La realtà, anche in questo caso, è ben diversa. Saddam chiese (e ottenne) il pagamento in euro del petrolio esportato già nel 2000 (tre anni prima dell’invasione) e nell’ambito del programma Oil For Food. Questo programma prevedeva che i proventi dell’esportazione di petrolio iracheno fossero convertiti in cibo e beni di necessità per la popolazione irachena. La decisione di Saddam, quindi, tenuto conto anche della scarsa rilevanza delle esportazioni irachene sul mercato del petrolio mondiale, non rappresentava alcun pericolo per il dollaro. Addirittura, Saddam si guardò bene dal convertire in euro le riserve di dollari di cui disponeva: all’epoca, infatti, il dollaro era più forte dell’euro. La compravendita di petrolio avviene sulle borse di New York e di Londra: sono queste borse a imporre l’utilizzo del dollaro. Il motivo, oltre ai costi che comporterebbe la riconversione del mercato su una valuta diversa, sta soprattutto nella convenienza sia dei paesi produttori che di quelli importatori. L’Arabia Saudita, ad esempio, dispone di immense riserve di dollari, che investe negli Stati Uniti. Se il dollaro dovesse svalutarsi, sarebbe la prima a rimetterci. Altro esempio. La Cina, tra i più grandi importatori, dispone anch’essa di enormi quantità di dollari. Pertanto ha interesse a utilizzarli per pagare il petrolio, piuttosto che per acquistare euro. Per questa ragione i grandi operatori del mercato, siano essi importatori o esportatori o intermediari, non hanno alcun interesse a scambiare petrolio in euro. I proclami in tal senso avanzati dall’Iran o dal Venezuela, sono semplici provocazioni a fini propagandistici che non hanno alcuna speranza di trovare applicazione. E’ stato calcolato che con una produzione di 2 milioni e mezzo di barili al giorno, la conversione da dollari in euro voluta da Saddam gli è costata oltre 90 milioni di dollari all’anno. In altre parole, è chi decide di passare dai dollari all’euro a rimetterci.

OCCAM MON AMOUR – È quindi evidente che le campagne militari in Afghanistan e in Iraq non hanno avuto come scopo (quanto meno non come scopo principale e diretto) né quello di assicurare la costruzione di gasdotti o oleodotti, né quello di accaparrarsi giacimenti di petrolio. Allora, qual’è lo scopo? È il caso di prendere seriamente in considerazione l’eventualità che esso sia esattamente quello dichiarato: sloggiare Al-Qaeda dall’Afghanistan, attuare la dottrina della guerra preventiva a spese dell’Iraq.

Altre fonti consultate:

Database EIA, Energy Information Administration
“Some interesting oil industry statistics”, Gibson Consulting Online
“Petrolio: la capacità di raffinazione come abilità strategica per il futuro del mercato mondiale”, Elisa Morici per Equilibri

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