La strana razza degli amici dei migranti

In attesa che l’umanità migliore ci informi ufficialmente sulla nuova denominazione che andrà a sostituire quella neutra di “migranti” da essa stessa imposta qualche anno fa, e in attesa che l’infatuazione per i futuri ex-migranti faccia il suo breve e prevedibile corso, cerchiamo di vederci un po’ più chiaro sull’insostenibile leggerezza di quest’umanità emotivamente programmata per essere sempre dalla parte sbagliata della storia e sempre dalla parte giusta delle smanie del momento.

C’è in giro qualcuno che ricorda ancora le facce attonite dei giornalisti del TG3 al tempo della caduta del Muro di Berlino? Ho qualche dubbio. Fu una faccenda altamente istruttiva. Lo stato d’istupidimento non durò molto, giusto il tempo di capire quale tornitura dare alla mitica Narrazione. Fu così che il simbolo della bancarotta economica, civile e morale del comunismo si trasformò in quello del dissolvimento dell’odiosa Cortina di Ferro che aveva diviso l’Europa per quarant’anni: anche l’Italia migliore potè allora, nel giorno della caduta fisica del Muro, partecipare pienamente alla festa degli ex-compagni della DDR liberati dal giogo, e spedire commossa fino alle lacrime i suoi inviati speciali incontro a masse di crucchi in marcia alla scoperta del paradiso occidentale. Certo, ciò accadde in un paese dove il voltagabbanismo ha toccato a volte vertici artistici, ma resta indicativo di un tratto caratteristico e poco lusinghiero dello spirito liberal in generale.
Comunque c’è sicuramente, o almeno ci dovrebbe essere, qualcuno che ricorda ancora la fregola salottiera con la quale l’Occidente inondò di simpatia i ragazzi di Piazza Tahrir, i protagonisti di quella rivoluzione al tempo di Twitter di cui si favoleggiò con incredibile frivolezza. Molti di loro erano, con tutta evidenza, i figli di una borghesia urbana abbiente e profondamente occidentalizzata per i parametri egiziani e costituivano una fragilissima avanguardia liberale sostanzialmente estranea al corpo della nazione: in una parola, furono gli inevitabili utili idioti di cui ogni rivoluzione si serve per coprire i suoi veri scopi. L’Occidente, sedotto dall’opportunismo, abbandonò vigliaccamente Mubarak e rinunciò a qualsiasi tentativo di mediazione. A quattro anni di distanza il popolo egiziano, saggiamente, si fa piacere un autocrate di ferro come il generale Al-Sisi e un regime che condanna alla pena capitale in maniera generosamente collettiva pur di non ritornare ad un paese governato dai Fratelli Musulmani. E i giovanotti di Piazza Tahrir, come quei cagnolini dei quali ci s’incapriccia nella stagione cattiva per poi abbandonarli al loro destino al momento di andare in vacanza, sono intanto scivolati nel dimenticatoio in religioso silenzio.

E che dire della fregola guerresca che s’impadronì dell’umanità migliore, fino alla presidenza di George Bush Jr prigioniera di un pacifismo tetragono senza se e senza ma, al momento dello scoppio dell’inesistente primavera libica, per il solo gusto di correre in soccorso dei rivoluzionari e nella convinzione che la campagna di Libia sarebbe stata una passeggiata? Che dire di quest’umanità che non volle immischiarsi negli affari libici nei lunghi decenni durante i quali la Libia di Gheddafi fu un centro nevralgico del terrorismo internazionale e il Rais la bestia nera del “guerrafondaio” Reagan, mentre lo volle fortissimamente quando lo “scatolone di sabbia” si era ormai ridotto ad un satellite dell’Occidente? Quattro anni di completa anarchia, di macelli e distruzioni – conditi dall’arrivo in Libia dei simpaticoni del Califfato, e dallo sbarco sui nostri lidi di centinaia di migliaia di profughi ma soprattutto di gente che non fugge né la fame né la guerra ma cerca semplicemente una vita migliore scommettendo sul fatto che l’enorme numero di morti inghiottiti dalle acque del canale di Sicilia è pur sempre una piccolissima percentuale di quelli che ce l’hanno fatta – non sono bastati a spingerla a un timido atto di contrizione.
Per la stessa umanità migliore Bashar al-Assad divenne un tiranno sanguinario solo quando si stagliò all’orizzonte qualcuno peggiore di lui, gli integralisti islamici finanziati da Arabia Saudita e Qatar che monopolizzarono il fronte delle forze avverse al regime non appena Al Jazeera e i media occidentali decisero di dare ufficialmente avvio alla “primavera siriana”; nel momento, cioè, nel quale il destino del dittatore siriano sembrava segnato, e ci si poteva accodare idealmente ai liberatori; mentre per lustri la stessa truppa umanitarista fu completamente indifferente alle sorti di quello “stato canaglia” fieramente anti-occidentale e legato all’Iran che sponsorizzava il terrorismo, destabilizzava il Libano e si ergeva a nemico per eccellenza d’Israele. Le prime centinaia di morti tra la popolazione civile bastarono a fare perdere completamente la tramontana alle diplomazie e ai media occidentali, e a sposare – non solo per ingenuità, s’intende – la causa dei ribelli. Oggi alcune fonti arrivano a parlare di 300.000 vittime della guerra civile in Siria (un numero non lontano da quello dei caduti italiani durante la seconda guerra mondiale) e di 4 milioni di profughi, mentre le forze del Califfato sono ormai vicine a Damasco. E con tutto ciò, proprio ieri l’ineffabile Hollande, nell’annunciare l’invio di aerei militari francesi in Siria in vista di eventuali raid contro l’Isis, ha rimarcato ancora una volta che ogni soluzione di pace in Siria si fonda sul presupposto della cacciata di Bashar Al-Assad dal potere: insistendo, cioè, in quell’atteggiamento ambiguo e opportunista (e oggi semplicemente immorale) che ha guastato tutto fin dall’inizio.
Questi, in buona parte, sono quelli che oggi vanno idealmente incontro con lo sguardo ebete dei figli dei fiori, al solo scopo di distinguersi dai perplessi o dai senza cuore o dai razzisti tout-court, alle fiumane di profughi musulmani in fuga dalle follie dell’Islam verso le terre degli Infedeli senza per questo sentirsi meno islamici di ieri; e non si capisce bene se siano più confusi e reticenti i primi o i secondi.

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