Venezia 76, Pedro Almodovar: “Il Leone d’Oro la mia rivincita qui”

Il regista Pedro Almodovar si racconta in conferenza stampa e rivela come nel 1988 avrebbe dovuto vincere il Festiva di Venezia, vive il Leone d’Oro alla carriera di quest’anno come un atto di giustizia.

Pedro Almodovar è uno dei più importanti registi a livello mondiale, un cineasta in grado di influenzare le nuove generazioni e di lanciarne di altre con la sua casa di produzione. Il Festival di Venezia ha deciso di conferirgli il prestigioso Leone d’Oro alla carriera e il regista spagnolo ha accettato di buon grado, con gioia e anche un pizzico di rivalsa visto che in passato fu ad un passo dal vincere il festival quando il presidente di giuria fu Sergio Leone nel 1988. Un incontro quello con Pedro Almodovar tra interessanti retroscena e confessioni sulle influenze del suo cinema, da molti definito ormai vero e proprio cult.

La sua prima volta a Venezia se la ricorda?

“Ero un giovane regista e già partecipare ad un festival internazionale era un miracolo, Gianluigi Rondi non aveva amato molto quel film. Lo definì osceno, tutte queste discussioni sono finite in bocca alla stampa e quindi era impossibile toglierlo, questo ha portato molta empatia verso il film e un bel ricordo per me. Siamo tornati nell’88 con “Donne sull’orlo di una crisi perenne “, la conferenza stampa sembrava un’enorme commedia e abbiamo vinto il premio per la miglior sceneggiatura. Le mie attrici erano meravigliose e davano un’immagine moderna della Spagna”.

A Cannes ci parlavi di molto dolore e poca gloria, qui è molta gloria invece. Come la interpreti? Nel tuo cinema c’è stata sempre la politica con la libertà sessuale?

“Dolori e Gloria riassume due parole su cui uso un certo pudore. Ho provato a non lamentarmi del dolore e non mi piace vantarmi dalla gloria. Il leone d’oro è fantastico, sono nato qui come regista a Venezia. Devo ringraziare il tempo perché mi ha dato ragione, quando venni qui nel 1988 il presidente Sergio Leone e anche Lina Wertmuller che nelle strade del lido mi dissero che il film gli piaceva moltissimo. Ricordo questo episodio perché questo premio rappresenta 31 anni dopo un atto di giustizia anche politica. Per quanto riguarda la differenza sessuale non si parlava di questo negli anni ‘80. La Spagna si era appena destata da una dittatura di 40 anni, la cosa importante era di aver perso la paura e godere della libertà. Volevo rappresentare le personalità e i personaggi che vedevo intorno a me, io sono responsabile di un grande potere come regista e sceneggiatore e voglio dare sempre grande libertà ai miei personaggi. Quando ho iniziato nel 1979 la cosa che più mi affascinava era il cambiamento in Spagna di cui in pochi hanno parlato, il nutrimento mi veniva dalle strade e anche dalla notte di Madrid che è stata la mia università. I miei film sono il risultato dell’Università della strada”.

Hai detto che ti piaceva la Spagna moderna di quell’epoca, consideri ancora moderna quella di oggi e secondo te anche l’Europa lo è?

“Mi riferivo all’immagine di Rosy De Palma, tutte le mie attrici che indossavano cose particolari. La Spagna vuole avere anche una cosa che rifiutava fino a poco fa, un partito di estrema destra che ora c’è anche da noi come in Francia,Italia e Inghilterra. La Spagna ora ha tutta la varietà politica, non so se l’aggettivo moderno è quello corretto. Io sono qui con i capelli più bianchi, indosso un tailleur e anche questo è il simbolo del tempo che passa. Posso dire però che Madrid invece è sempre uguale nelle strade”.

Può parlarci del suo stile e del suo linguaggio? È un qualcosa che ha sempre ricercato.

“Non ho mai pensato a ricercare uno stile nelle mie opere, la mia unica preoccupazione era che la storia si capisse. Con il mio terzo film “L’indiscreto fascino del peccato” ho cominciato ad avere un produttore e un budget, ho trovato consapevolezza del linguaggio cinematografico e me ne sono innamorato. Non mi sono mai preoccupato di avere un mio stile, sono cose che avvengono per conto loro. Questo mi permette di pensare solo a ciò che voglio nei film che realizzo con grande libertà, il mio stile c’è per via di queste circostanze”.

Può raccontarci meglio l’aneddoto sulla sua prima Venezia?

“Lina voleva che vincesse il mio film, ma qui si dice che vincano i film seri. Anche Sergio Leone voleva farlo vincere, volevo solo dire che questo premio è un atto di giustizia anni dopo. Per quanto riguarda la serietà la commedia è uno dei generi più difficili e complessi, qui lo hanno scelto il film mentre ad altri festival di pari importanza era stato scartato”.

Che importanza dai all’uso del colore?

“Credo che durante tutta la mia carriera da regista il mio uso del colore abbia sempre riflesso la nostalgia verso il technicolor che vedevo da bambino. Tutta la mia vita professionale è stata inseguire questa nostalgia alla fine. Il colore è soprattutto una reazione alla terra che mi ha dato i natali, la regione della Mancia è molto conservativa e vedo la gente che si veste con colori spenti, ma in seguito ho scoperto la bellezza dell’aridità. I miei film sono così barocchi per reagire alla severità della Mancia. Il nero perenne presente nei miei film era quello delle donne che mi circondavano”.

Che rapporto hai col cinema latino americano che spesso hai prodotto?

“Con mio fratello abbiamo grande ammirazione per i registi argentini,
Ma anche per il loro lavoro attoriale. Con i produttori con cui abbiamo collaborato ci siamo trovati molto bene. Quando ho visto “La cienaga” di Lucrecia Martel ho subito pensato fosse meraviglioso e abbiamo deciso di produrre i suoi successivi film. Io non conosco bene tutte le leggi della coproduzione, ma è molto agevole”.

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