Stefano Lentini a Talky!: ‘Ne La Porta Rossa la musica è un vero e proprio personaggio, una voce che può unire l’anima del film’

06/06/2019 di Redazione

Stefano Lentini è un compositore italiano, l’unico, insieme ad Ennio Morricone, ad essere rappresentato dall’agenzia hollywoodiana The Gorfaine/Schwartz Agency. Reduce dal recente successo del suo progetto solista “Fury”, prodotto con Foster, il polistrumentista romano vanta fra le sue altre collaborazioni quelle con Wong Kar-Wai, Giacomo Campiotti e Carmine Elia. Quest’ultimo è regista de La Porta Rossa, serie per la quale Lentini ha composto la colonna sonora.

Ciao Stefano! Partiamo un po’ dalle tue origini e dalla tua formazione, dall’inclinazione personale. A chi ti ispiri maggiormente?

L’ispirazione non è collegata tecnicamente a quello che faccio, sono condizionato molto da tanti musicisti che mi piacciono e che amo, però l’ispirazione viene dal mondo. Non è un’ispirazione prettamente musicale.

In una recente intervista affermi di derivare dalla musica pura, aggiungendo che il cinema è arrivato dopo a dare immagine e concretezza a qualcosa che per te è più astratto. Rimanendo nell’ambito dell’astrattezza non hai mai pensato di lavorare, o se lo hai fatto non ti piacerebbe farlo di più, con le canzoni piuttosto che con le colonne sonore?

In realtà scrivo tantissime canzoni. Mi è capitato però di lavorare molto più con la musica non cantata, per un caso fortuito. Mi capita anche spesso in realtà di lavorare a dei brani cantati, come per esempio mi è successo con La Porta Rossa, in cui ho collaborato con Charlie Winston sulle due versioni di It’s not impossible, o con l’altra canzone scritta per la seconda serie, Black Town. Anche in altre colonne sonore del passato c’era sempre una canzone, magari collegata ad altri eventi narrativi. Non è stata una scelta: se ne appaiono poche nella mia discografia è solo per fatti di contingenza.

Tornando alla colonna sonora de La Porta Rossa: immagino che dietro ad un lavoro come una serie tv ci siano molte menti e molte mani che lavorano. Per rendere il più possibile idoneo il tuo lavoro a quello che poi è il frutto di quest’attività di gruppo, con chi devi confrontarti maggiormente?

Sicuramente con il regista. Per La Porta Rossa in particolare abbiamo fatto un lavoro di ricerca estetica e narrativa intorno alla musica, cercando di considerarla come uno dei personaggi della storia e non come un commento. Anzi, abbiamo lavorato proprio per contrasto evitando i commenti, tanto che musicalmente succedono delle cose che vanno al contrario: in scene d’azione ci sono momenti narrativi, ovviamente se la scena d’azione lo permette, perché all’interno di una narrazione più amplia. Questa è stata un po’ la scelta. Con Carmine (Elia, il regista, ndr), su La Porta Rossa, il lavoro è stato fatto molto in profondità, perché lui era partito con questa visione della musica protagonista. Abbiamo cercato di declinarla poi su un personaggio, cercando di renderla una voce che potesse unire l’anima del film.

Più in generale come nasce una colonna sonora? Come si riesce a dare il giusto peso ad una scena o a trovare le vie migliori per coinvolgere il pubblico? Tu hai detto che la musica è diventata un vero e proprio personaggio, protagonista de La Porta Rossa. Ma come si riesce a fare questo?

Credo che la chiave di volta sia nella libertà espressiva, nel cercare di non replicare codici musicali già esistenti. Cercare una voce indipendente, autentica e che sappia in qualche modo rompere le regole con naturalezza. Ecco, questo credo sia l’elemento cardinale per poter fare una buona colonna sonora.

Forse è anche per questo che nella colonna sonora de La Porta Rossa hai inserito 5 estratti rivisitati della Traviata di Verdi, in cui tu hai cercato, cito, di far emergere i tratti più cupi e notturni. Una sperimentazione. Ci sono altri esperimenti, se cosi si possono definire, in cui vorresti cimentarti, o progetti, idee che hai già nella testa che ti piacerebbe mettere in atto?

Un’idea che mi circola dentro da tanti anni è quella di trovare una via unificatrice tra la musica sinfonica e la musica heavy metal. Sono stati fatti tanti esperimenti mescolando generi che per lo più trasformano il metal in qualcosa di kitsch o la sinfonica in qualcosa di troppo semplice e non ho mai sentito una potenza esplicativa. Sento la musica classica dentro l’heavy metal e sento l’heavy metal nella musica classica, ma non ho mai sentito una musica che utilizzasse entrambe gli elementi in maniera altrettanto potente. Mi piacerebbe, è una cosa che ho in circolo da tanto tempo che prima o poi magari verrà fuori.

Oltre alle sperimentazioni, nel tuo curriculum vanti numerose collaborazioni, tra le quali spiccano quelle con Foster (con cui hai prodotto Fury), Giacomo Campiotti (Bakhita, Braccialetti Rossi), Carmine Elia (La Porta Rossa), Wong Kar-Wai (The Grandmaster). Quale ti ha forgiato di più come compositore e in quale maniera?

Ognuna a modo suo mi ha dato qualcosa di fondamentale nel mio percorso, non ce n’è una più importante. Sicuramente Giacomo (Campiotti, ndr) ha segnato l’inizio della mia carriera, perché mi ha accolto nei suoi progetti quando avevo pochissima esperienza. Mi ha dato la fiducia necessaria per poter creare poi l’esperienza. Wong Kar-Wai è un regista visionario, grandiosamente visivo, che mi ha dato altri elementi, altro potenziale. Con Carmine (Elia, ndr) ho sviluppato una capacità di mettere in gioco la libertà espressiva al servizio del film molto più di quanto avessi fatto prima. Anche i piccoli progetti indipendenti con registi esordienti mi hanno dato tantissimo, perché ogni esperienza è un piccolo tassello. A volte può essere più difficile fare le musiche per un cortometraggio che per un grande film, perché devi riuscire sempre a trovare un equilibrio tra la forma della musica, l’espressività ed il racconto. Ogni storia è stata molto importante.

Mi sembra di capire che gli elementi principali dei tuoi lavori siano sempre quelli che mirano alla ricerca della libertà e della sperimentazione, in un certo senso.

Non posso dire di essere uno sperimentatore perché non provo piacere nello sperimentare in sé. Quello che mi piace nella musica che ascolto è sentire l’autenticità e l’indipendenza di chi ascolto. Non mi piace la musica di genere. Non mi piacciono i filoni. Mi piace sentire l’autore nella sua peculiarità, che sia hip hop, rap, heavy metal, o un compositore classico. Mi piace sentire una persona vera che sa fare una cosa e la fa con la sua autenticità, piuttosto che sentire un esperto in qualcos’altro. In qualche modo cerco anche io di fare questo, siccome mi dà molto piacere sentire la musica che io chiamo vera cerco anche io di esprimere una musica vera. Lavoro molto sulla ricerca dell’autenticità, senza tradire mai l’idea originaria, senza neanche prendere in giro l’ascoltatore con i trucchi del mestiere.

Chi è che definisci un autore vero, una persona vera? Chi ti piace ascoltare?

Il nome in assoluto che forse per me rappresenta più di tutti quest’idea è Chopin. L’ho ascoltato, l’ho amato. In ogni brano mi ha dato qualcosa di unico e di irripetibile, fuori dalla storia. È un compositore romantico, un pianista ‘amigo’, recensito da Schumann, da Liszt. Aveva una sua unicità, una sua via, un suo percorso. Alcuni anni fa è uscito un bellissimo libro che si chiama Chopin visto dai suoi allievi, che riporta tutta una serie di racconti di chi l’ha sentito suonare. Questa, per me, è stata una conferma enorme perché, se tu apri quel libro a caso e leggi uno qualsiasi di quei commenti, ognuno ti racconta quanto lui fosse unico nel suo modo di suonare e di comporre. Una conferma di quella mia sensazione molto acerba, da ascoltatore puro che avevo avuto, perché non sono un pianista, non ho studiato Chopin, non sono in grado di suonarlo. Avevo però percepito questa forza propulsiva e l’ho ritrovata. Poi ci sono tanti altri musicisti, anche di oggi, che portano ed hanno portato avanti una loro identità in maniera forte. In Italia Fabrizio De Andrè è quello che più di tutti mi ha segnato. Di lui direi che la sua più grande forza, anche come insegnamento da Maestro, sia stato il fatto di non prendersi mai troppo sul serio. Dopo un disco di successo non si è mai ripetuto, non ha mai fatto un disco uguale ad un altro o simile. Non ha mai ripercorso le stesse caratteristiche produttive, ha cambiato completamente. Credo sia raro, difficile, forse anche fuori dalla realtà. La musica diventa un lavoro, ti richiede una continuità. Lui ha rotto gli schemi in maniera pazzesca. Poi c’è un chitarrista inglese che mi ha segnato tanto, si chiamava John Renbourn, suonava con i Pentangle e poi ha seguito una sua carriera da solista. È venuto a mancare alcuni anni fa. In maniera completamente diversa, con un genere totalmente a sé stante, perché veniva dal blue e ha confluito nella musica celtica per poi andare verso la musica più popolare, ha seguito un suo percorso unico e con una capacità espressiva inconfondibile. Ti ho detto tre nomi, grandi, per me importanti.  

Grazie soprattutto per il consiglio sul libro di Chopin! Parteciperai come compositore della colonna sonora anche alla prossima stagione del La Porta Rossa?

Sì, sembrerebbe di sì.

Un’ultima domanda. Altri progetti per il futuro?

Sto lavorando adesso ad un altro progetto del quale però purtroppo non posso svelarti nulla, magari ci risentiamo più avanti e ci aggiorniamo!

Perfetto! In bocca al lupo per questo progetto segreto allora, intanto, e grazie per il consiglio e per la chiacchierata.

Grazie a te, è stato un piacere.

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