La fuga: la fiera del luogo comune|Recensione

07/03/2019 di Redazione

Una madre depressa, un padre che non sa più come gestire una situazione familiare tutta sulle sue spalle… e una figlia undicenne curiosa e intraprendente, che vuole a ogni costo visitare la città di Roma. Il quadretto difficile all’inizio de La fuga, lungometraggio d’esordio di Sandra Vannucchi, si avvale delle interpretazioni (un po’ lasciate a loro stesse, a dirla tutta) di due attori come Donatella Finocchiaro e Filippo Nigro, ma poi il film si gioca completamente sul visino pulito di Lisa Ruth Andreozzi, esordiente assoluta con la grande responsabilità di reggere un intero racconto sulle sue giovani spalle.

La fuga da un ambiente difficile

Tutto è negativo, si richiede una comprensione che è troppo grande per i propri undici anni, ogni curiosità, ogni guizzo, ogni iniziativa viene frustrata e messa a tacere in malo modo. Ecco che, come da cliché, la piccola Silvia scappa di casa. Se ne va a Roma, perché ha sempre voluto visitarla. E per chi ci abita, è ovvio che è impossibile ritrovare una ragazzina nella bolgia della capitale. Anche se ha un segno particolare come il suo sulla faccia. E il primo cliché è servito: quello della ragazzina che scappa di casa. Con una facilità che al giorno d’oggi è a dir poco anacronistica. Arriva nella bolgia della capitale, ma prima ancora si imbatte in una ragazzina Rom, Emina (l’altra esordiente Emina Amatovich, il cui nome, non sappiamo perché, è dato per scontato nei materiali per la stampa), che la porta al campo, dove Silvia sarà amorevolmente ospitata.

La retorica ne La fuga

In tempi in cui l’odioso termine neoconiato “buonismo” campeggia un po’ ovunque, infastidisce non poco chi scrive il doverlo utilizzare. Ma la retorica facilona ne La fuga infastidisce persino chi, nel complesso discorso politico-sociale sui Roma, tende a non ghettizzarli e a non considerarli esseri umani di serie B. Chi, come chi scrive, difende una lotta per il rispetto, l’emancipazione e l’inserimento nella società, specie delle nuove generazioni di Rom, resta interdetto dalla stucchevole faciloneria con la quale viene ritratto un campo, una famiglia, l’obbligo di andare a elemosinare, il buttare lì frasi pregne di significati terribili come “Dopo facciamo i conti”. Una retorica fastidiosa che trova il suo corrispettivo nella famiglia, italianissima, di Silvia. Stereotipata e semplificata, con la fuga della figlia che diviene il rimedio, estremo e ovviamente efficace, verso tutti i mali. Che risolve tutto con una ricerca del “ti voglio bene”, placebo risolutivo per ogni disagio familiare.

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