Matt Dillon: “Avevo dubbi su La casa di Jack, non su quella di Lars Von Trier”

18/02/2019 di Redazione

Matt Dillon, il protagonista di The House that Jack Built, nelle sale italiane (120 circa) dal 28 febbraio con il titolo La casa di Jack, è passato a Roma per presentare il film diretto da Lars Von Trier.

Scandalo a Cannes nel maggio scorso, quando molte persone sono uscite dalla sala per la crudezza delle scene, La casa di Jack racconta i crimini di un serial killer efferato, “uno psicopatico, una persona priva completamente di empatia. Ma Jack non è solo un serial killer, è anche un artista fallito, proprio per la sua mancanza di empatia, si trasforma proprio perché non ha un centro”.

Matt Dillon descrive così il suo personaggio, che aveva quasi deciso di non interpretare.

“Avevo dubbi sull’accettare o meno, e non erano dettati dal regista, perché ammiro Lars Von Trier, lavorare con lui era un’esperienza che desideravo fare da molto tempo. Ma in ogni caso stavo per non fare il film. Quando ho incontrato Lars mi è piaciuto subito come persona, molto, e mi ha rassicurato dicendomi che si sarebbe come sempre assunto tutta la responsabilità del film. Gli ho detto che sarebbe stato meglio, soprattutto in questo caso. La casa di Jack è una delle migliori sceneggiature che ho letto da molto tempo a questa parte, ma avevo un problema: non riuscivo a non giudicare il personaggio, da essere umano mi era naturale. Ero spaventato dall’orrore che genera Jack, temevo addirittura di negare a me stesso il personaggio durante la lavorazione. Perché, credetemi, non sono come Jack!


La casa di Jack Matt Dillon
Matt Dillon e Bruno Ganz in La casa di Jack di Lars Von Trier

La casa di Jack è anche una delle ultime interpretazioni di Bruno Ganz, che Dillon ha ricordato con affetto e ammirazione. Ma soprattutto è un film di Lars Von Trier, forse quello in il regista danese, genio e sregolatezza, si identifica maggiormente, anche a dire dello stesso Dillon, che nel prepararsi al film ha scoperto un vero e proprio inquietante universo.

. Ma soprattutto è un film di Lars Von Trier, forse quello in il regista danese, genio e sregolatezza, si identifica maggiormente, anche a dire dello stesso Dillon, che nel prepararsi al film ha scoperto un vero e proprio inquietante universo.

“Questo è un film unico per molti versi. Per documentarmi sono stato molte ore su internet e ho scoperto che il soggetto serial killer ha una fascinazione incredibile. Ho trovato un saggio in 4 volumi dal titolo “50 serial killer di cui non avete mai sentito parlare”. Cinquanta a volume, quindi in realtà erano duecento! Fa parte della natura umana, il male, la crudeltà, sono cose che esistono, e le dobbiamo accettare. Quando ho chiesto a Lars “perché vuoi fare questo film?”, lui mi ha risposto “Perché è il personaggio che assomiglia di più a me”. Solo che lui non ammazza persone. Credo…”

Il rapporto di Von Trier con i suoi attori assume da tempo i contorni della leggenda. Dillon sfata un po’ questo mito, descrivendo il processo con cui si è approcciato al personaggio e alle riprese.

“Mi sono imposto di spegnere alcune parti di me per potere fare quello che Jack fa. È stato un processo importante lavorare a questo film. Per la prima volta nella mia carriera mi sono trovato a non provare, neanche per una volta. E per un attore è magnifico, avevo libertà assoluta, compresa quella di fallire, che dal punto di vista creativo è un aspetto fondamentale. Ti spogli di tutto e sei costretto a vivere il momento”. Un rapporto stretto e di grande fiducia, che ha avuto un unico grande momento di preoccupazione per Dillon. Quando il film era già finito “lo guardai con Lars, a Copenaghen, e mi piacque, anche se ci sono delle scene su cui ho avuto delle difficoltà nel riviverle sullo schermo. E quando ho detto a Lars che mi era piaciuto, ero preoccupatissimo, ho pensato “che ho fatto, adesso cambierà tutto quello che può cambiare”. Lars non ama che altri apprezzino quello che fa. È fatto così…”

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