Gomorra: Marco D’Amore incontro al Lucca Comics “Io e Genny come il Tempo delle Mele, lacrime vere”
06/11/2018 di Thomas Cardinali
Al Lucca Comics and Games abbiamo avuto il piacere d’incontrare Marco D’Amore che ci ha regalato una conversazione dall’altissimo valore umano, oltre naturalmente a parlare di Gomorra in cui sarà ancora presente come regista.
Con Marco D’Amore però si inizia partendo da lontano, da quando iniziarono i casting per Gomorra a cui non si presentò:
““Non volevo fare Gomorra, credo di essere stato l’unico in Campania a non essermi candidato. Mi ha chiamato Stefano Sollima che aveva visto un mio progetto e poi è andata come è andata. Mi ha cambiato la vita professionale, vivo Ciro come vivrei un Otello. Con Gomorra abbiamo fatto 35-36 settimane di girato con i migliori attori italiani e i migliori professionisti. Per chi come me è sempre stato interessato alla macchina piuttosto che al personaggio è stata una grande esperienza formativa che mi ha fatto proporre alla produzione di passare alla regia”.
L’artista poi punta il dito su chi, ancora oggi dopo tanti anni, punta il dito contro Gomorra affermando che non sia un bene mitizzare dei comportamenti criminali che potrebbero essere emulati dai più giovani:
“È stato difficile calarmi in Ciro perché mi sono posto grandi problemi morali ed etici come tutti, sapevamo di raccontare la realtà attraverso un punto di vista preciso mettendo le mani nel dolore della gente. Le vicende dei personaggi sono la somma di una serie di biografie che hanno macchiato il panorama napoletano ed italiano. Sentivo di dover mettere su schermo un racconto atroce che aveva lasciato tante ferite che nell’immaginario collettivo non vorresti vedere, che vorresti avere lontano. Però rispetto a questo ho l’attitudine a ridimensionare quello che faccio, la serie non ha nessun intento educativo ed etico. Una serie tv ha il dovere di scuotere, far riflettere è un risultato in più. Io non ho mai chiesto però da spettatore a nessun film o serie di avere risposte. Io sono sempre rimasto disorientato davanti a certe critiche. Lo spettatore deve completare le riflessioni con il proprio vissuto. Non ho perso una grande percentuale di gioco, gli inglesi non parlano di recitare ma usano il verbo play, il gioco è una cosa seria da bambini. Chiunque aveva idea che Gomorra fosse regionale si è dovuto ricredere, era necessario andare a girare in Bulgaria perché volevamo fare un racconto epico su degli eroi tragici. Questo è un racconto della coscienza con cui qualsiasi cittadino può fare i conti perché c’è una percentuale di Gomorra in ogni angolo del mondo”.
Gomorra e l’evoluzione naturale con un grande ritorno
Gomorra non avrà più Ciro Di Marzio, ma continuerà ancora ad avere per diverso tempo Marco D’Amore che ha mostrato di saper raccontare storie con l’occhio del regista forse meglio addirittura rispetto all’interpretarle:
“Il passaggio alla regia non è stata la follia dopo una notte di sbronza, molti potevano pensarlo. È la tappa di un percorso più lungo iniziato a teatro, ma questo al di là dell’interesse del mio percorso è che io non mi sono mai arrappato per un ruolo. La domanda più bella che puoi fare a un attore è che ruolo puoi fare, per me non è così. Mi sono sempre interessato molto più i temi e le storie dei personaggi. Quando si è concluso il mio percorso è stato fisiologico propormi e la produzione ha accettato anche perché ho spesso discusso con i registi come cambiare la scena o impostarla. Se lo aspettavano questo mio passaggio. Per me è stato bellissimo parlare in questo modo con i miei colleghi, all’attore viene chiesta la massima prestazione in due ore su dieci di set. L’attore in 50 secondi di una scena deve rendere al massimo, il regista deve fare il maratoneta e partire km prima dell’attore e preparargli il campo. Lui ha l’ultima parola su tutto, poi il lavoro del regista Contini con la chiusura del set e con il montaggio che può cambiare il taglio narrativo di una puntata. In questo senso ho trovato quello che chiedevo a questa esperienza, mi è stato dato un carico di responsabilità importante”.
Un passaggio che in maniera incredibile è stato privo di difficoltà, nonostante Gomorra sia una macchina difficile da gestire:
“Tutti i giorni mi hanno tutti ripetuto “sembra che hai fatto 20 film”, può sembrare scontato ma questo è indice dell’attitudine di ognuno di noi. Gestire un set con 100 persone può diventare incredibilmente complicato, ma io non ho trovato difficoltà è stato come mangiare una pizza con gli amici. Tutto quello che mi avevano detto all’inizio è scomparso perché ho finalmente messo in luce tutto quello che so fare”.
Marco D’Amore poi ribadisce un concetto molto importante, ovvero che lui e Salvatore Esposito (la nostra intervista a Venezia 75) con il loro rapporto hanno modificato molto il taglio di Gomorra nelle prime tre stagioni raccontando alla fine quella che è a tutti gli effetti una storia d’amicizia e d’amore:
“Gli incontri nella vita di Ciro sono fondamentali, ma direi soprattutto le perdite perché inizia il suo percorso di. Violenza dopo la perdita di una figura paterna come Attilio. L’odio nasce dal più nobile degli amori come quello verso un padre. Tutta la sua vita è stata costernata da perdite e lontananze, da addii traumatici. Viene a mancare la moglie, la figlia, perde il tessuto criminale e quindi è protagonista di un discioglienti. Perde la sua casa e le sue radici prima di riprendere. Perde l’amicizia con Genny che riconquista a fatica. Perde tanto di se in termini di gioventù. C’è una fine dolorosissima dalla quale non si può sfuggire. Uno degli incontri della mia vita è quello con Salvatore Esposito che è un fratello.Abbiamo contribuito a dare un taglio diverso al rapporto tra loro due unendoli molto di più. Abbiamo destabilizzato Stefano e loro ci hanno sfruttato. La storia di Gomorra è la loro storia d’amore”.
Gomorra al Tempo delle Mele, il lungo addio con tre ore di lacrime
Quando domandiamo a Marco D’Amore se sia più facile interpretare la morte piuttosto che guardarla da dietro la macchina da presa si lascia prendere dal ricordo svelando uno di quei segreti che spesso rimangono sul set, mostrando tutta quella umanità che lo spettatore ha saputo cogliere anche in mezzo alla morte di Gomorra:
“Io nella scena della morte di Ciro c’e Stata una scelta registica che ha coinciso perfettamente con le interpretazioni. Se facciamo l’analisi del testo noi siamo saliti su una barca con 15 persone e poi non c’e Più nessuno. È tutto girato con gli occhi di due ragazzi che si sono odiati e amati fino ad arrivare alla fine della loro esistenza. In un minuto dovevamo raccontare 15 anni di esistenza. Io e Salvatore eravamo soli e dentro ci passava la vita dopo sei anni insieme, nessuno voleva che finisse. Noi eravamo come ne “Il tempo delle mele”, io ero appoggiato alla sua schiena gli ho messo le cuffiette, ci siamo messi a piangere ascoltando la musica di Gomorra. Volente o nolente siamo andati a mettere le mani nella nostra vita. Tante volte hai imbarazzo nel farlo, li sei protetto dal personaggio e noi per tre ore non abbiamo avuto bisogno di lacrime artificiali perché dentro a quelle lacrime vere c’erano Genny e Ciro, ma soprattutto io e lui”.
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