Diabolik sono io | Recensione
11/03/2019 di Redazione
Un modo assolutamente insolito per raccontare il misterioso Angelo Zarcone: per i veri autentici appassionati, il primo disegnatore di Diabolik. Approcciarsi alla visione di Diabolik sono io, da lettore del Re del terrore, sapendo che il film è uno strano ibrido tra documentario e finzione, mette in corpo non poca aspettativa e non poca speranza: che il misterioso Zarcone abbia infine lasciato qualche traccia, che sia stato ritrovato? Che venga rivelato qualcosa che i fan di Diabolik ancora ignorano?
Diabolik sono io: il fumetto italiano più all’avanguardia
Disprezzo della legge, omicidi e ruberie, sesso e promiscuità, pianificazioni diaboliche e molto altro. Questo era Diabolik, nato dalle menti delle due “sorelle diaboliche”, Angela e Luciana Giussani. Il fumetto più all’avanguardia, anche perché pensato da due meravigliose donne, che nella parte documentario parlano con un bicchiere di tè e una sigaretta in mano. Le acconciature e il vestiario tipici degli anni Sessanta, educazione, contegno, sorriso. Tutti ciò che si confà a una signora “a modo”. Però loro intanto mettevano su un’impresa capitanata da donne e che in ufficio contava solo donne. Raccontando di un uomo dannatamente sexy e pericoloso, senza limiti. Sono loro la cosa più bella di Diabolik sono io.
Lo strano esperimento di Diabolik sono io
Per il resto, il film è qualcosa che non trova un senso: si tace qualunque elemento interessante, non si tenta la ricostruzione di nulla. Cosa avviene nella parte di finzione? Si immagina che Zarcone si sia perso e che si risvegli, ai giorni nostri, tra l’altro, pensando di essere lui stesso Diabolik. Se qualcuno volesse spiegarci l’utilità o anche solo quale tipo di interesse questo dovrebbe suscitare in un appassionato o come potrebbe procurare anche un solo nuovo lettore a Diabolik, gliene saremmo estremamente grati.
E se l’aggettivo “televisivo” è ormai orrendamente abusato in ogni produzione italiana, mai come qui fu appropriato. Un Luciano Scarpa completamente sperduto è Zarcone/Diabolik. Certo, quando aggrotta le sopracciglia ce lo ricorda, con quegli occhi gelidi. Ma cos’altro? Claudia Stecher dovrebbe essere una novella Eva, ma non ne possiede né l’età, né la personalità, né l’avvenenza. In un susseguirsi di vicende sempre più ridicole (l’apoteosi con la pantera digitale che salta sulla Jaguar), si snoda un racconto che davvero non trova ragione di esistere, mentre dal lato del documentario nulla si racconta che non possa essere agevolmente trovato su Wikipedia.
Un’occasione sprecata, una perdita di tempo, una delusione che suscita anche rabbia in un lettore vero, che sa bene quanto si poteva raccontare di Diabolik. Persino il film viene omesso, come se non fosse mai stato girato. La svolta nella cifra del racconto, quando Diabolik smette gratuitamente di uccidere. Se non fosse per le parole di Lucarelli, non verrebbe menzionato nemmeno l’albo per l’autodifesa femminile “Eva Kant: quando una donna deve difendersi” (ma lo nomina solo lui, il regista Giancarlo Soldi non si prende nemmeno la briga di mostrarne la copertina).
Si esce dalla sala divisi in due: chi si domanda il perché e chi si chiede come mai Diabolik sia questo grande mito italiano. Il film non lo lascia intendere in alcun modo alle nuove generazioni.