Tre motivi per cui la salma di Vittorio Emanuele III non deve stare in Italia

18/12/2017 di Redazione

Sottovalutò il fascismo, non fu molto presente quando l’Italia crollò per la seconda Guerra Mondiale, non si curò di sua figlia che morì in un campo di concentramento tra le più atroci sofferenze. La salma di Vittorio Emanuele III è stato tumulata nel santuario di Vicoforte accanto alla moglie, la regina Elena. I suoi resti tornano in Italia dopo settantuno anni dopo l’abdicazione e l’esilio in Egitto.

Ma Vittorio Emanuele III, a dispetto dei nostalgici della monarchia, non fu un eccellente Re. Ci sono molte ombre sul suo passato che non lo rendono di certo amato. Salì al trono a 31 anni, dopo l’uccisione del padre Umberto I, il cosiddetto «re buono». All’inizio del suo mandato fu ricordato come un illuminato, con l’amnistia per alcuni reati politici e una apertura alle masse popolari dell’epoca. Il resto purtroppo è un corollario di scarsi risultati.

1 – SOTTOVALUTO’ IL FASCISMO

Quando nell’ottobre 1922 le camicie nere marciavano su Roma rifiutò di firmare lo stato d’assedio, proposto dal governo del liberale Luigi Facta. Affidò a Benito Mussolini l’incarico di formare il nuovo esecutivo. Non approfittò nemmeno del 1924, quando fu ucciso Matteotti e Mussolini sembrò decisamente più debole. Controfirmò il lungo baratro del paese verso la dittatura. Dallo scioglimento di partiti e sindacati all’alleanza con Hitler fino alle leggi razziali.

2 – LA RIDICOLA FUGA DI BRINDISI CHE UCCISE CENTINAIA DI SOLDATI

La fuga da Roma del re d’Italia e del maresciallo d’Italia Pietro Badoglio (nota anche come fuga di Pescara, fuga di Ortona o fuga di Brindisi), fu l’abbandono della Capitale all’alba del 9 settembre 1943 verso Brindisi. Ma mentre il re e i vertici militari fuggivano per mettersi in salvo ci si scordò, con grande pressapochismo, di lasciare ordini e disposizioni alle truppe e agli apparati dello Stato. Questo comportò 72 ore di panico in tutto il Paese. Con la sgila dell’armistizio le forze di terra, abbandonate a loro stesse, non furono in grado di opporre resistenza verso i tedeschi e molti caddero morti o prigionieri in tutto lo stivale (eccetto per i soldati in Sardegna, Corsica e Puglia).

3 – LA BRUTTA FINE DELLA FIGLIA MAFALDA

Mentre la guerra peggiorava la principessa Mafalda langravia d’Assia decise di rientrare a Roma per raggiungere la famiglia. Era convinta che nessuno l’avrebbe fermata. Lei alla fine dei conti era anche una cittadina tedesca, principessa tedesca, moglie di un ufficiale tedesco. L’aereo sul quale viaggiava si fermò a Pescara. Per otto giorni alloggiò a Chieti, in un palazzo vicino alla Prefettura. Con mezzi di fortuna il 22 settembre riuscì a raggiungere Roma e fece appena in tempo a rivedere i figli, protetti in Vaticano da monsignor Montini (il futuro papa Paolo VI), escluso il maggiore, Maurizio, che si trovava già in Germania, come il padre. Così mentre Vittorio Emanuele III era fuggito verso Brindisi lei cercava di raggiungere convintamente tutta la sua famiglia.

Il 23 mattina, all’improvviso, Mafalda venne chiamata al comando tedesco per l’arrivo di una telefonata del marito da Kassel in Germania. Era una trappola. Il marito era già nel campo di concentramento di Flossenbürg. Mafalda fu deportata nel Lager di Buchenwald, dove venne rinchiusa nella baracca n. 15 sotto falso nome (Frau von Weber). I nazisti la deridevano chiamandola  “Frau Abeba”. Anche se ricevette un certo trattamento nel campo la principessa morì in condizioni orribili. Nell’agosto del 1944 le truppe alleate bombardarono il lager. La baracca 15 fu distrutta, lei con gravi ustioni su tutto il corpo iniziò un calvario. Per al cancrena le fu amputato un braccio. Mafalda venne abbandonata in una stanza del postribolo, senza cure. Morì dissanguata nella notte del 28 agosto 1944. Davanti ai deportati che la salvarono sembra abbia detto: “Sento che per me sarà difficile guarire, voi siete giovani, potete farcela. Se mai la fortuna vi aiuterà a tornare fatemi un bel regalo salutatemi i miei figli Maurizio, Enrico, Ottone e Elisabetta. Salutatemi tutta l’Italia dalle Alpi alla Sicilia”. Intanto il padre Vittorio Emanuele abdicò solo nel giugno 1944, dopo la liberazione di Roma, affidando il Regno al figlio Umberto, in vista poi della futura decisione sulla forma istituzionale dello Stato. Prima dello storico referendum l’ex re si ritirò ad Alessandria d’Egitto, dove morì un anno e mezzo dopo.

(foto ANSA)

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