RomAfrica Film Festival: Ayanda, la giovane donna che crede e combatte per i suoi sogni

Ayanda – il film di cartello che ha aperto il Romafrica Film Festival – racconta la storia di una giovane donna sudafricana di 21 anni, che cerca di costruire il proprio percorso di vita senza rinunciare ai sogni e assecondando le proprie passioni. Ayanda vuole mantenere viva la memoria del padre e così si impegna a tenere aperto il garage dove lavorava il genitore, dedicandosi al riciclo e alla creazione di mobili e, poi, al restauro di auto d’epoca abbandonate. Nonostante la sua inventiva e un’indomita forza di volontà si scontrerà con la dura realtà della vita.

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La platea del teatro all’aperto della Casa del Cinema è colma, nonostante l’appuntamento infrasettimanale e il caldo. Così, nella meravigliosa cornice di Villa Borghese e dopo aver ascoltato un po’ di cerimonie e le presentazioni di rito (in verità un po’ troppo prolisse e a volte anche un po’ goffe), le vicissitudini di Ayanda – bella, fiera, testarda, ma anche un po’ selfish – catturano l’attenzione degli spettatori romani e degli ospiti.

Grazie a una regia curiosa e vivace seguiamo continuamente i percorsi della giovane ragazza sudafricana che dà il nome al film; ne scopriamo il carattere, i sogni, le speranze e le difficoltà. Sebbene la regista, Sara Blecher, si concentri quasi interamente su unico personaggio, riesce a farlo in modo onesto e anche crudo, mostrando le difficoltà dell’attuale società sudafricana, ma anche la forza vitale degli uomini e (soprattutto) delle donne che la abitano. La storia di Ayanda ha il pregio di funzionare, suscitando emozioni e attivando l’interesse di chi guarda e anche i personaggi di contorno appaiono credibili e ben interpretati. Tra questi, interessanti le figure del fratello alcolizzato di Ayanda, la cui storia, seppur trattata in modo rapido, mette in evidenza una piaga molto diffusa in Sudafrica, in special modo nei quartieri più poveri: l’alcolismo. Difficile, poi, non apprezzare il personaggio di David, amico meccanico di Ayanda, immigrato nigeriano tanto generoso quanto ingenuo. Segnaliamo infine il patrigno della protagonista: figura ambigua e indecifrabile, sicuramente vero.

Nel complesso un film ben fatto, caratterizzato da una buona recitazione e da una regia discreta. Il plot si svolge in modo avvincente, anche se alcune dinamiche sono facilmente intuibili. Ma Ayanda riesce sempre a spiazzarci, soprattutto nel finale, che però forse andava abbreviato. Si deve però registrare la prova di maturità di una produzione (tutta al femminile, peraltro, grazie al lavoro di Terry Pheto) in un’area geografica sinora poco avvezza all’industria cinematografica: stiamo forse assistendo alla nascita (o maturazione) del cinema sudafricano?

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