Referendum & Co: l’epoca delle seconde scelte. E la politica delle seconde file

REFERENDUM –

Il referendum italiano, le votazioni in Austria, il futuro in Francia e il post-Brexit in Inghilterra: e se questa fosse davvero un’epoca delle seconde scelte? Un periodo in cui – vuoi per la cupezza della competizione o vuoi per l’estremismo delle posizioni – sono i politici da seconda fila a sbaragliare il campo? A subentrare nelle partite in corso per sfruttare la stanchezza degli avversari e rileggere il corso degli eventi passati?

Qualcosa che tocca persino la bandierine più simboliche. Per Eric Hobsbawm, il Novecento era stato il secolo breve. Partito tardi nel 1914 e rotto presto, nel 1989, a Berlino, con il crollo del muro. Poi, però, l’altro giorno, muore Fidel Castro e sarà pure la rigonfiatura giornalistica del momento ma in tanti hanno detto: adesso è davvero finito il Novecento. Nel 2016.

LEGGI ANCHE: JIMMY CHOO, LA PAZZA SVENDITA DI LUGANO

Resta il fatto che tra queste due date terminali c’è un brandello di storia lungo quasi un trentennio. E non è un semplice cambio di stagione: le previsioni di chi, lì dentro, aveva visto l’illusoria primavera di una “fine della storia” o di uno “sciopero degli eventi” sono state smentite. C’era l’idea che l’Occidente “sbloccato” – senza più antagonisti frontali – avrebbe dovuto dilatarsi, pilotando i processi di globalizzazione. Dagli impulsi capitalistici della finanza a tutti quei correttivi successivi che si sarebbero dovuti applicare nel campo dei diritti. E invece dopo una prima euforia anni Novanta, l’autunno e l’inverno sono arrivati insieme. E sulla scena, d’improvviso, riecco i “nemici”. Esterni e interni: il terrorismo che porta l’altrove più violento in casa, ma soprattutto quel progressivo sfaldamento nei rapporti di fiducia con gli arnesi tradizionali della democrazia: i meccanismi della delega che si appannano, la frustrazione di non sentirsi rappresentati, mentre i principi della sovranità diventano una palla contesa giocata su campi sempre più lontani. Con tutti gli effetti che sappiamo a livello popolare: disaffezione e frustrazione che diventano rabbia, la rabbia vendetta, fino alle continue rivolte nei confronti di capisaldi che parevano intoccabili.

Sentimenti diffusi che – in un modo o nell’altro – ritornano negli incroci di calendario, come quello di domenica prossima. Già, perché mentre a Cuba, verrà dato il saluto definitivo all’ultimo lider maximo del passato, altrove ci si azzufferà in battaglie decisive per il futuro europeo. A partire dall’Italia, dove Matteo Renzi si gioca tanto o tutto con il referendum costituzionale. Riforma pasticciata o meno, il dato che esce nell’unica terra di mezzo tra il sì e il no è questo: lui che fino a poco fa si profilava come il “nuovo” della politica italiana, nel giro di mille giorni di governo, sembra “già invecchiato” dalla necessità di difendere un fortino contro l’onda d’urto di movimenti come i 5 stelle che da anni puntano sul crollo verticale del sistema.

Ed è una posta in palio non tanto differente da quella che si disputa in Austria. Dopo l’annullamento del voto del maggio scorso, domenica andrà in scena il replay dello scontro per la presidenza tra il verde Van der Bellen e il nazionalista Norbert Hofer, il cui partito, l’Fpö, sogna di trascinare il paese fuori dall’Europa sull’esempio del modello Brexit. E tutto questo avviene nella settimana in cui, nelle primarie del centrodestra francese, a spuntarla, è stato François Fillon. Una vita da perenne numero due, sbalzato contro ogni pronostico in prima fila nella lotta per accedere il prossimo anno sulla poltrona più alta dell’Eliseo. Là dove, a sinistra, sfiderà un candidato non ancora stabilito (le primarie socialiste saranno a gennaio), mentre, a destra, ingaggerà una battaglia serrata contro Marine Le Pen e quel Front National sempre più in ascesa.

Un destino, quello di Fillon, che mai come in questo lungo periodo di transizione sembra mettere al centro delle contese politiche figure nate sotto il segno di “una seconda scelta”. Del resto, lo stesso Fillon, in passato, era stato uno dei ministri più facili da scaricare, quando Chirac aveva dovuto guidare, nel 2005, il passaggio dal governo Raffarin a quello di de Villepin. E anche quando era assurto alla carica di primo ministro, lo aveva fatto sotto la stella ingombrante di Nicolas Sarkozy che si era sempre limitato a derubricarlo come “suo semplice collaboratore”.

In entrambe le situazioni, la vendetta è arrivata ad anni di distanza, negli overtime delle partite, ma tanto basto adesso per rendere al momento Fillon il candidato con più chances di succedere a François Hollande, altra personalità politica – peraltro – salita al potere come “seconda scelta”. Nel 2011 infatti il nome forte su cui gran parte della sinistra francese convergeva era quello dell’ex-direttore del Fondo monetario internazionale Dominique Strauss-Kahn. Una rampa di lancio, la sua, strozzata dagli scandali sessuali che lo fecero deragliare dai binari delle opportunità elettorali, lasciando così campo libero nell’anno successivo a quel politico “normale” che proprio sulla “normalità” costruì il suo successo. Un picco di preferenze che Hollande ha dilapidato molto velocemente nella pratica del governo, ma che qui ci importa evidenziare nella sua dinamica iniziale: tutte quelle circostanze che spingono un uomo di seconda fila a trovare le luci della ribalta più inaspettata.

In fondo, anche l’ascesa in Italia di Matteo Renzi ha trovato la sua massima spinta, proprio nel momento in cui ha conosciuto la sconfitta. Parliamo delle prime primarie in casa PD del 2012 quando l’allora rottamatore fiorentino venne battuto da Pier Luigi Bersani. La gestione dello smacco diede il via alla ripartenza che gli porta in dote quel capitale politico indispensabile per vincere le sfide successive. Renzi si mette temporaneamente in disparte, rimanendo fedele al partito e rinunciando ad avventure personalistiche. Nell’attesa, il resto lo fanno la non-vittoria di Bersani alle votazioni del 2013 e soprattutto la débâcle democratica durante l’elezione del presidente della Repubblica, con i 101 traditori che bruciano – per via parricida – la candidatura al Quirinale di Romano Prodi. Ma ciò non toglie che la rincorsa agli exploit successivi come il famoso 40 percento ottenuto nelle regionali del 2014, per Renzi, sembra paradossalmente partire da lì, dal momento in cui la prima scelta si rivolse a un’altra figura di leader, incappata di lì a poco in una serie di sconfitte.

Del resto, niente sta fermo nel tempo. Le cose evolvono e anche gli outsider col tempo diventano “prime scelte”. Con i più svariati effetti collaterali, perché se in Austria Van der Bellen può avere una rivincita dopo la sconfitta di 8 anni fa quando alla carica di vice-presidente dell’Assemblea gli fu preferito un esponente dell’Fpö, per Renzi vale un discorso contrapposto. Proprio la mancanza di un avversario di pari equilibrio sul suo fronte democratico opposto, gli ha consentito una condizione di “solitudine potente” che lo ha messo davanti al rischio di logorarsi nell’illusione di essere l’istituzione, vagheggiando prima un partito della Nazione passe-par-tout e puntando tutto poi sulla personalizzazione di questo referendum.

Ma è un discorso che vale anche per i principali avversari di Renzi che si muovono al di là degli steccati tradizionali, perché in realtà, il movimento 5 stelle non è altro che un movimento composto da “seconde scelte”. In alto e in cima, c’è ovviamente il proprietario del marchio politico, Beppe Grillo che, dopo la scomparsa di Casaleggio, è padrone unico dell’intero contenitore. Ma non scendendo lui direttamente in campo elettorale, quasi tutti gli altri candidati non possono che esserne delle “seconde scelte”. Una sorta di voto per interposta persona. Del resto, basta guardare agli screzi che si sono creati col grande capo ogni volta che un grillino ha raggiunto una carica operativa. Dall’esclusione del primo sindaco di Parma Federico Pizzarotti fino alle controversie della Roma guidata da Virginia Raggi.

Contrasti evidenti di una politica dalle due bocche divaricate. Quella che grida, promette e s’indigna quando non è seduta al tavolo principale delle decisioni. E quella che invece balbetta, timida e impacciata, nel momento in cui si trova confrontata con la gestione della cosa pubblica.

Per non parlare poi di quanto un trionfo inaspettato che dovrebbe coronare un percorso politico possa trasformarsi nella perdita della propria ragione sociale. È quello che è successo, per esempio, nell’immediato dopo-Brexit al partito indipendentista britannico Ukip. Il leader Nigel Farage dà le dimissioni e il partito implode, cambiando tre capi nel giro di cinque mesi all’interno di una spirale autodistruttiva. E qui, la nomina a nuovo leader del partito di Paul Nuttall, dell’altro giorno, non pare nemmeno il frutto di una “seconda scelta”, ma forse scivola ancor più in giù, verso la terza o la quarta opzione.

Del resto, la domanda resta ancora una volta la stessa: il sostituto che entra sarà in grado di cambiare a match in corso la piega degli eventi? Come sempre, in questo periodo di previsioni sballate, così poco legate ai nessi di causa-effetto della politica tradizionale, nessuno può dirlo. Del resto, chi avrebbe mai immaginato che quella “seconda scelta” in casa repubblicana di un Donald Trump riuscisse a sbirillare – uno a uno – tutti gli altri competitor nelle primarie del partito dell’Elefante per poi trovare il gran rimbalzo e battere la democratica Hillary Clinton nel tu-per-tu dello scorso 8 novembre?

Anche lui, venuto su con tutta l’irruenza di una “seconda scelta”, ha potuto sfruttare al meglio quell’effetto sottovalutazione che permette una maggiore possibilità di movimento. Gridando, promettendo e indignandosi almeno fino a quando il prossimo 20 gennaio non entrerà ufficialmente alla Casa Bianca e inizierà a giocare la sua partita da attore principale. Questa volta però collocato su quel fondale istituzionale sotto il quale tanti hanno cambiato passi, misure, toni e registri. Nell’attesa, però, Trump può ancora usare il suo megafono massimalista e dire, come ha fatto l’altro giorno, dopo la morte di Fidel Castro, che se Cuba non concederà qualcosa in più, manderà a monte lo storico accordo stipulato da Obama. Quell’accordo che il novecentesco Fidel Castro probabilmente non avrebbe mai accettato, ma che la sua seconda scelta, il fratello Raul, aveva stretto dopo un lungo lavoro diplomatico. Che è come dire: dopo un Novecento, breve o lungo che sia, arriva sempre il tempo delle seconde scelte.

 

Share this article