Raghdad e Federica: lettera aperta a due padri coraggio, spezzati ma straordinari

19/07/2015 di Boris Sollazzo

La domenica i giornali li leggi più a fondo. Hai più tempo e spesso hanno loro stessi un’attenzione maggiore nel costruire quelle pagine che nel resto della settimana nascono vecchie, superate dal web e da un racconto continuo che fa apparire i quotidiani ormai strumenti obsoleti. Eppure, dal momento che contano più i giornalisti dei supporti, nella rassegna stampa di oggi troviamo una bella intervista di Nino Cirillo a Luigi Mangiapello sul Messaggero e un’altra di Alessandra Coppola e Andrea Galli a Eyas Hasoun.

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Chi sono Luigi ed Eyas? Due uomini, due esseri umani piegati da un dolore immenso, due padri. Luigi ha perso Federica, splendida sedicenne, in circostanze inspiegabili, causate, secondo la condanna a 18 anni appena emessa, da quello che credeva fosse amore e invece ora è un giovane uomo 25enne, che a più di 40 anni riotterrà la libertà. Eyas ha visto dei bastardi lanciare l’insulina della figlia in mare, l’unico antidoto alla morte per un corpo fragile e vitale. Eyas è arrivato a Siracusa, la sua Raghdad no.
Entrambe erano piene di sogni, entrambe non li realizzeranno mai. E questi due padri hanno perso la luce dei loro occhi, quelle principesse per cui avrebbero affrontato draghi e imprese titaniche (“se solo avessi saputo – dice Luigi – quella sera l’avrei anche legata per non farla uscire di casa”), ma che non hanno potuto proteggere dalla disumanità di altri uomini come loro, dalla follia e dalla meschinità di assassini ingiustificabili.

Eppure Luigi ed Eyas non covano vendetta. Luigi ed Eyas sono ancora pieni d’amore per le figlie, che mancano loro in una maniera indescrivibile. E nelle loro parole, come in quelle dei genitori del povero Marco, morto assurdamente in un ascensore della fermata della metro Furio Camillo a Roma, sanno raccontarci la vita, la forza, la nobiltà d’animo, che sconfiggono la morte – con loro Federica e Raghdad rimangono vive, nei loro racconti e nelle nostre menti -, la voglia di vendetta, la crudeltà degli atti che hanno spezzato le loro esistenze. Potrebbero seminare odio, invece in loro nome provano comunque a migliorare questo mondo, a cambiarne la grammatica sentimentale ed emotiva, a provare a far sì che quell’ignominia che ha spazzato via le loro ragazze non si ripeta.

FEDERICA MANGIAPELO, PARLA IL PADRE LUIGI –

Commuove, Luigi, nel non voler tenere la contabilità fredda della condanna che ha colpito l’assassino della figlia. “Tutti a dirmi che 18 anni sono pochi, ma ha un senso? Il pm me l’ha spiegato bene: con il rito abbreviato questo è proprio il massimo della pena. Di Muro oggi ha 25 anni, se gli fosse confermata la condanna, se non trovasse scorciatoie o regaletti, questa sarebbe una lunghissima pena. Se invece me lo ritrovo fra cinque o sei anni in giro, beh, allora è diverso”. Non vuole vendetta, ma giustizia. Quel “sono pochi, ma ha un senso?” rende l’idea di come anche il giustizialismo violento di questi anni non abbia senso di fronte a un dolore così grande e a un animo così profondo. Un’atrocità, quella che ha subito Luigi, che però non sa, non può annullare il suo spessore morale.  Quello di un padre che ci spacca il cuore quando parla dell’uomo che gli ha tolto tutto, Marco Di Muro. Per cui, comunque, prova pietà. “Ci abbiamo riflettuto io e Rosella (la mamma di Federica e sua moglie -ndr). Se penso a quello che ha fatto lo sbatterei al muro, ma vederlo lì, abbandonato da tutti, senza un padre o una madre vicino, con lo sguardo perso nel vuoto…. Dico la verità: ci ha fatto tenerezza“. Tenerezza. E noi invece proviamo ammirazione per Luigi, che con garbo punta il dito anche contro di noi. “Non rifarei alcune cose, non andrei in alcune trasmissioni. Ho imparato che ci sono giornalisti seri e giornalisti no”. Sono tanti, purtroppo, i giornalisti no.

RAGHDAD, PARLA IL PADRE EYAS –

Per fortuna Coppola e Galli, del Corsera, sono “giornalisti sì”. E sono loro che interrogano uno stravolto Eyas. Ha qualche anno in meno di Luigi (poco più di 50 anni), la sua Raghdad ne aveva altrettanti in meno rispetto a Federica (undici). Non viene da Anguillara ma da Aleppo, dove aveva una grande farmacia. Ma niente di ciò che vendeva poteva lenire la sofferenza di Raghdad, la sua quartogenita (su sei figlie), malata di una forma di diabete particolarmente aggressiva che le stava minando anche il pancreas. Tanto era debole il suo fisico, quanto forte il cuore e sveglia la mente: disegnava, scriveva, sognava. Lo faceva anche su quel barcone, che per Eyas doveva essere la prima tappa verso Londra, dove curare la sua fragile pupilla, magari con le cellule staminali. Raghdad non è arrivata neanche a Siracusa: ignobili e avidi vigliacchi l’hanno condannata a morte. Nel modo più vile. “Si stava spegnendo… Mormorava “papà, papà” e non aggiungeva nessuna parola. Non ne aveva la forza ma in realtà non ce n’era bisogno: “papà” significa che sta a te occuparti di tutto, risolvere i problemi qualunque essi siano, proteggere la tua bambina sacrificandoti se necessario. Io non l’ho fatto. E questa colpa mi rimarrà addosso per l’intera esistenza. Insieme alla scelta di partire verso la Sicilia. Avevamo preparato due grossi zaini: uno lo tenevo io e il secondo mia moglie Nailà, nel timore che avrebbero potuto dividerci. Gli zaini erano pieni di fiale di insulina, e di macchinari per misurare i valori del diabete e le giuste dosi di medicinale da somministrare. Sulla spiaggia di partenza, vicino ad Alessandria, gli scafisti ci hanno ordinato di raggiungere una piccola barca che distava un centinaio di metri. Inutile opporsi, erano armati di kalashnikov. L’acqua ci arrivava alla testa. Il mio zaino si è impregnato d’acqua. Mia moglie è riuscita a salvarlo, l’ha sollevato sopra il capo, allungando le braccia e soffrendo in silenzio per il dolore. Uno scafista le ha urlato di abbandonarlo. Mia moglie ha risposto che quello zaino era più prezioso della sua stessa anima, l’ha pregato d’avere pietà. Lo scafista gliel’ha strappato di mano, l’ha scaraventato in mare. Ci siamo immersi, lo abbiamo recuperato ma era ormai compromesso. I macchinari non funzionavano, le fiale erano inservibili, era difficile calcolare bene le dosi. Ho provato, ho provato ad aiutare la mia piccola Raghad… Ma senza macchinari, senza insulina, ero impotente. Avevo il buio che mi stava travolgendo”.

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Il buio, che non ha raggiunto la sua anima, però. Che non vuole vendetta. No, neanche lui. Solo giustizia. Ringrazia gli investigatori siciliani che gli hanno creduto subito, racconta ancora. “La mia bimba stava sempre peggio. Faticava a muoversi. Eravamo al terzo giorno di viaggio. La costa egiziana era ancora vicina, si vedeva. Quegli avidi sciacalli aspettavano altri immigrati, per prendere più soldi. Ho chiesto se, nel caso fosse giunta una nuova barca, sarei potuto tornare indietro con la famiglia. Hanno detto di sì. Ma un amico ha sentito che gli scafisti via radio ordinavano agli altri in arrivo di caricarci e buttarci. Abbiamo deciso, con l’approvazione di chi era sulla nostra imbarcazione, che viva o morta Raghad sarebbe rimasta con noi fino alla Sicilia. Si è spenta al quinto giorno. L’abbiamo appoggiata su un piccolo pezzo del ponte, era tutta rannicchiata, attorno c’era gente accalcata, stremata, svenuta. Poi… poi il suo corpo si stava… volevo che le altre figlie non avessero di lei un’immagine… c’erano delle persone esperte di religione. Hanno celebrato la cerimonia funebre… abbiamo lavato i suoi vestiti in mare… l’ho adagiata in acqua“. Lei, che era stata avvertita, come le cinque sorelle, dei rischi. Su Youtube, in quell’Egitto che aveva prima accolto gli Hasoun e poi respinto, Eyas aveva mostrato loro le immagini più dure, perché decidessero cosa fare. Tutte dissero “si va uniti”. Solo Raghdad ebbe un’esitazione. “Sono la più debole, creerei solo problemi, lasciatemi in Egitto. Sono il punto debole, voi proseguite”. Nessuno è stato più forte ed eroico di te, piccola: cinque giorni a lottare contro una malattia spietata, la tua, e infame, quella di scafisti senza alcun valore, se non quello che intascano per comprare e vendere le vite altrui al mercato della disperazione. Nessuno è più forte di quel papà che ora si dà tutte le colpe, ma di seminare odio in nome tuo non ne vuole sapere.

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Il punto debole, Raghdad e Federica, siamo noi. Che scendiamo in piazza per urlare il nostro odio contro gli immigrati che occupano poco e nulla in una periferia cittadina, ma non sappiamo affiancare nella loro lotta per la giustizia Luigi ed Eyas.
Scusateci, ragazze. E ringraziate per noi i vostri padri coraggiosi, noi ci vergognamo anche solo di rivolgere loro la parola. Non ne siamo degni.

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