L’Anac di Raffale Cantone: senza soldi non riusciamo a lavorare

L’Autorità Anticorruzione, la panacea di tutti i mali italiani: o almeno così sembra. Sarà che di Raffaele Cantone il presidente del Consiglio Matteo Renzi si fida personalmente, tanto da assegnare all’Anac – definita dallo stesso premier «una best practice a livello mondiale» – la supervisione di tanti dossier fra i più spinosi del paese: gli appalti di Roma Capitale dopo lo scoppio dell’inchiesta Mafia Capitale, e ancora il Mose, e poi il Giubileo della Misericordia, e prima ancora il flusso finanziario dell’Expo, il nuovo codice degli Appalti, gli arbitraggi per i correntisti delle banche truffate.

L’ANAC DI RAFFAELE CANTONE, SENZA SOLDI NON RIUSCIAMO A LAVORARE

Solo che con tutte queste incombenze – è la stessa Anac a dirlo – comportano un peso finanziario e organizzativo difficile, un fardello che senza un’adeguata dotazione economica è insostenibile. Sergio Rizzo sul Corriere della Sera fa il punto.

 

Prima i guai dell’Expo, poi quelli del Mose, quindi le toppe del Giubileo, e i compiti in materia di trasparenza stabiliti dai decreti sulla pubblica amministrazione, e il nuovo codice degli appalti. Perfino gli arbitraggi per risarcire i correntisti delle banche truffati. Oltre all’ordinaria amministrazione, ovvio. Sulle spalle di Raffele Cantone stanno rovesciando addosso tutte le rogne di un Paese che secondo Transparency international è il più corrotto d’Europa con l’unica eccezione della Bulgaria. Dopo averlo però messo nelle condizioni di fare le nozze con i fichi secchi, perché non può nemmeno spendere i soldi che ha in cassa. Questo paradosso rischia ora di creare problemi tanto grossi all’Autorità anticorruzione, da farle rischiare di non poter gestire le nuove pesanti incombenze previste che le sono state affidate. Cominciando proprio da quelle più delicate come le nuove procedure per gli appalti pubblici stabilite dalla riforma pronta per il debutto. Per evitarlo adesso è necessaria una norma che consenta di superare gli ostacoli imposti al bilancio, e ci deve pensare il governo. Più in fretta possibile.  Questo c’è scritto in un documento che si intitola «Nota di aggiornamento al piano di riordino dell’Autorità nazionale anticorruzione», che porta la data del 28 gennaio scorso. E si può leggere nelle ultime righe, sia pure in un linguaggio felpato: «Non può non evidenziarsi che il bilancio dell’Autorità sconta una rigidità della spesa tale da non consentire per il futuro, a quadro normativo vigente, ulteriori norme di contenimento oltre quelle finora adottate se non a prezzo di una ridotta funzionalità dell’Anac che, nella circostanza, non sarebbe tra l’altro coerente con l’implementazione delle funzioni (…) la quale, anzi, indurrebbe ad una nuova riflessione nelle sedi opportune sul mantenimento degli obiettivi di contenimento della spesa». Più chiaro di così… 

 

Anche perché, continuano da Via Solferino, l’Anac i soldi in cassa li ha, eccome; però non può spenderli, per i vincoli di bilancio e i tagli che è stato proprio il governo Renzi a imporre.

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L’Anac non può spendere soldi che pure ha in cassa, una cinquantina di milioni, grazie anche ai risparmi ottenuti in questi anni. E poco importa se quei denari non sono nemmeno pubblici, visto che l’authority viene finanziata dai soggetti vigilati. Questa situazione kafkiana fa venire in mente il calvario che gli ottusi vincoli di stabilità impongono ai Comuni più virtuosi, a scapito di quelli meno efficienti: i primi non possono impiegare risorse che risparmiano, ai secondi lo Stato copre senza battere ciglio i buchi di bilancio. Nel solo 2015 la cura dimagrante è stata particolarmente dura. L’Anac ha tagliato il bilancio del 25%, da 62,9 a 47,2 milioni. Il costo del personale è sceso del 19%, da 38,5 a 31,2 milioni. Quello per gli immobili del 33,4%, da 7,2 a 4,8 milioni. Compensi e rimborsi per gli organi istituzionali sono stati ridotti del 53%, da 2,4 a 1,1 milioni. Mentre l’esborso per l’acquisto di beni e servizi si è ridimensionato del 32%, da 14,8 a 10 milioni: ne hanno fatto le spese i servizi resi da terzi (meno 34,9%), i collegi, i comitati e le commissioni (meno 71,1), la Camera arbitrale (meno 44,7), gli onorari per gli esperti esterni (meno 83,4), gli avvocati (meno 46,1), i giornali (meno 48)… 

 

 

Vero è, scrive Rizzo, che il passato è veramente impietoso.

L’Anticorruzione che conosciamo oggi è il risultato della fusione fra due authority preesistenti: la Civit, che doveva sovrintendere alla pubblica amministrazione, e l’autorità per la vigilanza dei contratti pubblici, dove sprechi e inefficienze erano di casa.I costi erano astronomici: due sedi nel centro di Roma, sei direzioni, personale esterno profumatamente pagato, un addetto alle relazioni esterne da 238 mila euro l’anno. Nel piano di riordino dell’Anac è descritta un’organizzazione tutta appiattita verso l’alto, con una pletora di dirigenti «non commisurata alla missione istituzionale né al numero complessivo di personale». Erano 58, uno per ogni cinque impiegati, con punte di uno ogni tre per alcuni servizi. E i dipendenti? Ben 336, per giunta non sempre «reclutati con criteri coerenti».

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