Poche immunità, ma uguali per tutti

Se Thomas Haxey potesse seguire la stagione italiana delle riforme, c’è da scommettere che si rivolterebbe nella tomba. Fu il deputato inglese, nel 1397, ad essere condannato a morte per aver osato denunciare gli scandali di Riccardo II. E, a seguito di tale episodio, i parlamentari britannici riuscirono ad ottenere dal Re il diritto a non essere giudicati per le opinioni espresse nell’esercizio del proprio mandato. Si rivolterebbe anche Honoré Mirabeau e, con lui, gli altri rivoluzionari francesi che, nel 1789, ottennero la libertà dagli arresti per i componenti dell’Assemblea nazionale.

La storia testimonia, cioè, che le immunità parlamentari non sono affatto privilegi, “benefits” dei singoli. Tutto il contrario: sono garanzie per il Parlamento nel suo insieme, nei confronti del potere esecutivo e di quello giurisdizionale. Le applicazioni distorte, il malcostume ed i vizi troppo spesso disvelati dalla classe politica italiana non consentono di snaturare l’istituto. Altra storia, come si dirà, è riflettere sul grado di estensione che queste garanzie devono avere. Eppure la riforma istituzionale sulla quale sta lavorando il tandem Renzi-Boschi rischia di arenarsi proprio di fronte alla questione delle immunità per i componenti del nuovo Senato.

Non ha senso – si dice – che siano coperti da immunità i Sindaci ed i rappresentanti delle Regioni che faranno parte della nuova Camera. Alcuni di questi, poi, hanno prontamente dichiarato ai giornali che loro proprio non vogliono alcun privilegio. Ci risiamo. Un primo punto deve essere chiarito: non è condivisibile l’idea che circola in queste ore di dotare di immunità i deputati, ma non i senatori. Se ha senso prevedere delle garanzie per il Parlamento, non si capisce su quale base si possa differenziare una Camera dall’altra. Gli esempi di diritto comparato, e soprattutto quello francese (modello al quale la riforma in larga parte sembra ispirata), confermano l’irrazionalità di prevedere garanzie diverse per le due Camere.
Il fatto che i deputati siano eletti dal popolo e che i senatori siano scelti con un sistema di secondo grado (cioè fra i sindaci o fra i consiglieri regionali) non rileva, così come non sembra pertinente il richiamo (che si ritrova con frequenza nelle ultime dichiarazioni dei politici) all’eccezione tedesca. È vero, infatti, che i componenti del Bundesrat non godono di immunità. Ma, in tale caso, si tratta di meri delegati dei governi del Lander, cioè di soggetti privi di qualsiasi rappresentanza democratica (di primo o di secondo grado), che sono nominati e revocati a discrezione dei poteri esecutivi. Chiarito, dunque, che (almeno per come – fino ad ora – sembra prendere forma il nuovo Senato italiano) non vi è alcun motivo di differenziare le immunità, è il caso di porsi un secondo interrogativo, ben più sostanziale. E cioè: è ancora il caso di prevedere immunità così ampie per i parlamentari italiani (siano essi deputati o senatori)? Un rapido esame comparato ci pone in compagnia di Paesi come l’Albania, la Georgia, la Russia e l’Ucraina. Le democrazie più solide, infatti, hanno progressivamente ristretto le garanzie per i parlamentari, soprattutto per quanto riguarda i procedimenti penali. Detto altrimenti, è da difendere la piena libertà di espressione per i membri del Parlamento, ma è da chiedersi se siano ancora attuali garanzie “procedurali” come il divieto di intercettazione o di perquisizione. In questo senso sembrano andare anche le raccomandazioni della “Commission de Venise” del Consiglio d’Europa, che ha recentemente pubblicato un rapporto sull’argomento, dal quale emerge chiaramente come la restrizione delle immunità per i parlamentari è direttamente proporzionale alla maturità di una democrazia.

Lorenzo Cuocolo

Professore di Diritto comparato Università Bocconi,
Milano

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