Dai fasti ai disastri: caro Parma ti scrivo

Ci ho sperato. Tanto. Troppo.

Non solo perchè tifo il Parma fin da quando sono piccolo, ma per una questione di principio. Non può essere. Ancora è tutto troppo nitido, lucido, reale nella mia mente. Un anno fa battiamo il Livorno nell’ultima giornata e Cerci sbaglia il rigore che a tempo scaduto poteva portare il Torino in Europa. Mi regalano un sogno. In Europa ci va il Parma. Ci andiamo noi. Dopo 7 anni. Dopo che ci eravamo stati per 13 stagioni consecutive (l’ultima nel 2003-2004 quando uscimmo in semifinale con lo Spartak Mosca). Dopo i successi europei degli anni ’90. Dopo un primo crac societario dal quale usciamo ridimensionati, ma non uccisi.

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Parma
1993: la sciarpata dei tifosi del Parma a Wembley nella finale di Coppa delle Coppe contro l’Anversa, finale vinta per 3-1 dai ducali (David Cannon/Allsport/Gettyimages)

 

Un anno dopo i fasti, ecco i disastri economici di Ghirardi e and Co. (troppi i debiti accumulati per trovare un investistore), la retrocessione, il fallimento. Non posso credere che una parte della mia vita ricca di gioie e sofferenze sportive sia costretta ai Dilettanti. Non lo posso accettare. Ma lo dovrò fare. Mi sento derubato di un piccolo piacere settimanale, di un’esultanza di un minuto, di un coro da stadio urlato a squarciagola, del piacere dell’attesa di una partita, del tifo in generale. Ma che ne sanno loro di cosa significa tifare? Che ne sanno di cosa si prova ad avere una fede calcistica? Tifare deriva dalla parola greca ‘Thifos’ e significa delirare. Il tifo è delirio allo stato puro. Non guarda in faccia a nessuno, non vuole sentire ragioni. In fondo è un po’ come l’amore quando arriva, ti prende e non ti fa capire più niente.

Delirio quindi, è un termine che usiamo per dare una forte accezione a qualcosa che è successo. Qualche volta in positivo, questa volta in negativo. Si, perché nonostante l’ottimismo-illusione (ricordatelo presidenti/dirigenti) non abbandoni mai un tifoso, questo è un colpo duro da digerire. Il pensiero va ai dipendenti della società in primis e poi ai tifosi. A noi. Costretti dopo gli anni d’oro dell’era Tanzi (prima illusione)a una vita di sofferenza calcistica. O meglio di gioie limitate perché alzare un trofeo di questi tempi, per una provinciale, seppur nobile, è impresa più unica che rara. Ci hanno tolto tutto e gettato nella palude della Serie D. Ci toccherà una scalata infinita che speriamo sia breve e ricca di soddisfazioni. Mi auguro che la cordata di imprenditori locali possa creare una società solida, sicura e con obiettivi concreti.

Non sarà facile risalire la corrente. Non sarà facile per noi tifosi continuare a fare quel ‘tifo maledetto’ a una squadra violentata 2 volte in due decenni. Chi ha permesso tutto questo andrebbe bandito dal mondo del calcio. Chi ha permesso tutto questo non merita di fare parte del mondo dello sport più bello che esista. Ma in Italia fino a che non c’è una vittima sacrificale, non si fa mai nulla. Siamo a tratti maledettamente immobili, statici, con gli occhi chiusi. La pecorella da uccidere, però, non doveva essere il Parma. Ma dobbiamo farcene una ragione. E ripartire da dove siamo partiti. Dalla serie D. Ma anche dal profumo dell’erba di un campo da calcio, dall’immagine di un bambino con la maglia gialloblù addosso. E’ dalle cose semplici che si recuperano fiducia e felicità, dimenticandoci o facendo finta di dimenticare tutto il male che ci hanno fatto. Mi hanno portato via il tifo, ma almeno adesso lasciatemi ‘delirare’ in pace.

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