Parigi sotto attacco: ora l’Islam diventi un alleato. Lo dice il regista de L’odio

14/11/2015 di Boris Sollazzo

PARIGI SOTTO ATTACCO –

Ore. Ore davanti a uno schermo e a una pagina vuota. Il X e l’XI arrondissement, Les Halles, il Bataclan, lo Stadio. La Parigi vera, attaccata ferocemente. La Parigi dei ragazzi che escono il venerdì, di chi ama la bellezza e l’arte, di chi si diverte nei caffé.

E’ l’11 settembre 2001 europeo? Forse. Forse è anche peggio. Le Twin Towers erano un simbolo del potere economico, politico, capitalistico, americano. Nessuna strage di massa ha un senso, ma nell’ottica fanatica-militare di questi pazzi bastardi, si poteva persino trovare un filo logico, quanto folle, nel percorso che li aveva portati a far volare due aerei verso quei grattacieli, un altro verso il Pentagono e un altro, forse, verso il centro dell’immaginario politico mondiale. Così come Charlie Hebdo aveva in sé il perverso e insensato seme della reazione a un’offesa, alla blasfemia.

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Qui no. Qui non è così. Qui è il terrore puro: è l’assalto in Tunisia a un resort, è un aereo – se verrà confermato – di turisti che viene fatto esplodere. E’ come le bombe nelle discoteche, pensiamo a Bali ma anche a Tel Aviv. E’ mettere nel centro del mirino civili senza responsabilità, semplicemente con il passaporto, la cittadinanza, la residenza sbagliata. Ecco perché dobbiamo reagire. Perché è come se avessero sparato senza sosta in un luna park.

E la reazione non sia la barbarie. A dircelo è uno che le banlieues le conosce bene. La reazione non sia l’odio. E lo dice il cineasta che L’odio lo ha girato, raccontato, vissuto, proiettato dentro spettatori fino ad allora inconsapevoli del germe di rancore sociale, storico, religioso, politico che cresceva nel cuore dell’Europa. Fu L’odio, a inizi anni ’90, con Vincent Cassel, ad avvertirci della bomba su cui eravamo seduti. Facemmo finta di niente ma noi, allora adolescenti, avemmo paura. Un po’ di loro è vero, ma molto di noi stessi.
E ora è Mathieu Kassovitz, il suo autore, a dirci cosa fare.

 

Parigi sotto attacco
Il tweet di Mathieu Kassovitz, poi cancellato

Una frase importante, necessaria, potente: “domani, in strada, un milione di musulmani per marcare chiaramente la differenza tra Islam e barbarie”. L’appello di chi, artisticamente e umanamente è, e si sente, ponte tra due culture, tra uomini schiavi del terrore, figlio di civiltà opposte e nobili che si stanno consumando a causa della fiamma dell’odio. Lui che con L’odio, capolavoro di inizio anni ’90, aveva capito tutto, troppo.

Non l’hanno capito, gli hanno dato del traditore ed è diventato un obiettivo, non un faro. E responsabilmente, ha cancellato tutto. Perché ora forse non è importante dire la cosa giusta, o combattere. Ma fare. Contro ogni orgoglio, anche personale. Ma la reazione violenta alle sue parole è il segno dell’apocalisse morale e emotiva di queste ore: l’odio prevale, ma è l’odio che questo terrore vuole fare esplodere. Farci diventare dei barbari come e peggio di loro, questo è il loro obiettivo. Questo sarà il loro successo.
Lui l’ha capito. Nessuna polemica, afferma in un tweet “che la discussione è essenziale”, ma cancella tutto. E retwitta compulsivamente tutti i tweet raggruppati nell’hashtag #rechercheParis, perché ora è più importante cercare superstiti, aiutare parenti disperati, dare spazio alle loro parole strazianti. Più di tutto.

Ma ha ragione. Ora salviamo tutti quelli che possiamo, aiutiamo i parenti terrorizzati che sotto quell’hashtag ci strappano il cuore con le loro richieste d’aiuto. Ma da domani, rispondiamo come dobbiamo e non come vogliamo. Mia moglie con la sua migliore amica, due settimane fa, erano a La petite Cambodge. Se io fossi stato questo fine settimana a Parigi, sarei andato a vedere Francia-Germania. La prima cosa che ho provato è stato un sordo rancore, una voglia, una fame di vendetta. Poteva esserci la persona più importante della mia vita tra le vittime. E da oggi, avremo sempre paura di essere tra loro, o peggio di trovarvi qualcuno a cui teniamo.
Ho vissuto qualche mese in Israele: da oggi, anche noi ogni volta che prenderemo un autobus, metteremo in conto il peggio, convivremo con comunità che in sè hanno almeno una persona uccisa o mutilata dalla follia dei kamikaze.
Un concerto, un caffé, una cena, un bicchiere di vino non possono essere una colpa, un pericolo, l’anticamera di una morte assurda e infame. Una partita di calcio, neanche.
Soft target, li chiamano gli analisti di questi eventi. Obiettivi morbidi, letteralmente. Vittime inermi, nei fatti.

Hanno ricaricato più volte e sparato, quei vigliacchi.

Ma noi non siamo loro. Kassovitz, uomo di cultura e di cinema, che sa cos’è la bellezza e l’orrore, il privilegio e l’ingiustizia, la multiculturalità e la rabbia, ci ha detto cosa fare. Una marcia, anzi un oceano di gente che manifesti. Arabi e cristiani, ebrei e induisti, palestinesi e israeliani, afgani e pakistani, americani e iracheni. Mano nella mano, abbracciati. L’Islam mostri la sua vera faccia, quella colta e sensibile, quella profonda e moderata, non quella della jihad. Non abbia paura: questi assassini, questi mostri presto uccideranno anche i loro correligionari, per terrorizzarli, schiacciarli, comprarsi con la paura il loro silenzio. Brecht insegna che se ci si volta dall’altra parte, con soddisfazione magari, quando rastrellano e uccidono altri, alla fine prenderanno anche te.
Il mondo da una parte, la barbarie dall’altra. Non ci sono altre possibilità, non c’è una terza via. Non ci si può nascondere. L’Islam deve scoprirsi, rischiare, mostrare la sua vera faccia, che non è quella sanguinaria che ora ci devasta. E lo stesso dovrà fare l’Occidente. Sì, interrompere Schengen, ora, forse è necessario (anche se ogni limitazione delle nostre libertà è un loro trionfo). Ma è fondamentale non interrompere la democrazia, i valori fondanti delle nostre costituzioni, la potenza dei nostri ideali, troppo spesso traditi. Traditi, magari, anche sovvenzionando gli attuali terroristi contro i passati tiranni.
Siamo in una guerra senza regole. Ora vogliono Roma, Washington e Londra. Cadranno in tanti, forse anche alcuni di noi. Ma non è abdicando a noi stessi che vinceremo. Non è scrivendo “bastardi islamici” sulla prima pagina di un giornale, “buonisti=complici” su twitter o “subito attacchi in Siria e in Iran” da parte di un politico che otterremo qualcosa (a quel politico dico che persino Marine Le Pen ha avuto più dignità e responsabiità di lui). E non è nascondendoci dietro alla libertà di espressione che potremo ancora a lungo sopportare queste barbarie, sia pure da tastiera o da carta (straccia, in questo caso) di giornale.
No, noi dobbiamo seguire quel regista che subito dopo l’orrore, anzi durante, ha avuto il coraggio di dire quello che è più difficile pensare, sperare, desiderare ora.
Serro i denti, mi scendono lacrime di rabbia e sgomento. Chiedo scusa se forse non sono chiaro come dovrei. Non è facile. Ma nessuno di noi può e deve rimanere nascosto. Abbiamo tutti la responsabilità di agire, e non di reagire. Non ci fermiamo, non scendiamo al loro livello di follia: Obama e Hollande non compiano l’errore di Bush. Nessuna guerra santa, niente stati canaglia. Nessuno si senta escluso.
Questa è una chiamata alle armi, ma per lottare per un mondo migliore.
Non per dargli il colpo di grazia.

(Foto copertina: JOEL SAGET / AFP / Getty Images)

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