Parigi e Facebook: della mia foto profilo faccio quello che voglio

Posare un fiore sotto la sede dell’ambasciata francese a Piazza Farnese serve? Piangere in piena notte davanti alla televisione con in mano un telecomando, in un appartamento alla periferia di Roma, Milano o Firenze, è utile? Il minuto di raccoglimento e la Marsigliese suonata su tutti i campi di calcio sconfiggeranno l’Isis? I giorni di lutto cittadino, gli speciali dei giornali, i monumenti che si spengono o che si accendono riporteranno in vita le vittime? No, no e ancora no. Tutto questo serve a noi, fortunati, che restiamo, serve a fermarci, a fare i conti con la fragilità della nostra esistenza, con l’angoscia di un nemico invisibile eppure universale, con il terrore di perdere in un attimo una persona cara e di non ricordare l’ultimo abbraccio, l’ultimo bacio, l’ultimo sorriso datole.

È un modo fin troppo semplice per rispondere al nostro tormento, per sfogarci, per farci sentire meglio. Ci illudiamo che basti un gesto, un rituale. Non è un atto di altruismo, tutt’altro: ci illudiamo che tutto ciò ci faccia sentire generosi, quando invece è solo egoismo, sacrosanto egoismo. E nessuno ha il diritto di giudicare. Direte: su Facebook c’è chi ha colorato di blu, bianco e rosso la sua foto profilo e poi se n’è strafregato, delle ricostruzioni, dei risvolti politici, della analisi socio-religiose. E allora? Se anche una sola persona lo ha fatto con il cuore, con trasporto e dolore, anche fosse servito solo a lui, che si fottano le tante – ed è inutile negare che non ci siano – che lo hanno fatto per conformismo, perché fa figo, perché ingannano gli altri su quanto siano sensibili.

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Successe lo stesso con l’immagine arcobaleno che celebrava la storica sentenza della Corte suprema Usa sul matrimonio gay. Se non sono iscritto a nessuna associazione lgbt eppure cambio la mia foto profilo – lo hanno fatto 30 milioni di utenti, mi viene difficile pensare abbiano tutti in tasca la tessera dell’Arcigay – sono un superficiale, un allineato, un ruffiano? Ma neanche per sogno. Posso essere contento del fatto che si esca dal Medioevo, che due miei amici o due mie amiche possano finalmente giurarsi amore per la vita e sentirsi una famiglia, senza dover per forza tenere uno striscione al Gay Pride ma colorando la mia faccia su Facebook. Allo stesso modo decido che quello sia il modo o almeno uno dei modi per reagire alla strage di Parigi.

Il mezzo poi condiziona: se in una piazza vedessimo migliaia di persone con un laccio tricolore al braccio o legato allo zaino saremmo pervasi dalla commozione. Se invece succede su Facebook si grida al qualunquismo, alla banalità. In realtà è vero il contrario: nella società dell’immagine, che sia un bene o un male, i social network definiscono il nostro io e la foto profilo ci rappresenta, dice chi siamo, è la prima cosa che mostriamo del nostro biglietto da visita digitale. Cambiarla quindi ci espone, è un gesto molto più significativo di quello che possa sembrare. E voglio sentirmi libero di poterlo fare sempre. In barba a benpensanti, moralisti e paraculi.

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