“Paola Clemente è morta nei campi per due euro all’ora, voglio giustizia”

Paola Clemente è morta ad Andria lo scorso 13 luglio, durante l’acinellatura dell’uva, nei campi della Puglia: aveva 49 anni, tre figli e viveva a San Giorgio Jonico. Ogni mattina, da sempre, si alzava alle tre del mattino per andare nei campi, a guadagnare nemmeno 30 euro al giorno, fra caporalato e schiavitù. Non è soltanto la storia dei migranti che raccolgono i pomodori, quella del sud Italia: è anche quella dei tanti italiani che nei campi vivono e lavorano. Fino a che non muoiono, per cause tutte da appurare: come Paola, di cui il marito, ora, chiede giustizia.

PAOLA CLEMENTE, MORTA NEI CAMPI PER DUE EURO ALL’ORA

Su Repubblica, intervistato, è il marito di Paola Clemente, che parla accanto ai sindacalisti e agli avvocati della Cgil che stanno seguendo il caso e che annunciano: andremo fino in fondo.

«Andava via di casa alle 2 di notte. Prendeva l’autobus alle 3. Ai campi, ad Andria, da San Giorgio Jonico, arrivava intorno alle 5.30. Noi a casa la rivedevamo non prima delle 3 del pomeriggio, in alcuni casi anche alle 6. Guadagnava 27 euro al giorno. Poco. Ma per noi quei soldi erano importanti, erano soldi sicuri, assolutamente indispensabili. Fin quando è arrivata quella telefonata: Paola si era sentita male, io non sono riuscito nemmeno a salutarla: ora Paola non c’è più».

Un mestiere duro, una vita difficile, ma portata avanti sempre con dignità, racconta il marito.

Da quanto tempo lavorava sua moglie?
«Da sempre. Quello nei campi è sempre stato il suo mestiere. E da qualche tempo lavorava appunto ad Andria insieme a una serie di persone».
In cosa consisteva il lavoro di sua moglie?
« Acinellatura.Tolgono gli acini più piccoli per fare bello il grappolo. È necessario quindi che le braccianti salgano su una cassetta e tolgano l’acinino. Significa stare con le braccia tese e con la testa alzata per tutta la giornata. È un lavoro molto faticoso, ma non potevamo fare altrimenti».
In che senso?
«I soldi servivano».
Quanto guadagnava?
«Ventisette euro al giorno».
Se conta anche il viaggio, sono tredici ore di lavoro al giorno. Meno di due euro l’ora. È schiavitù.
«Erano soldi sicuri. Per come stanno le cose in Italia era denaro importantissimo, per Paola e per noi. Erano indispensabili. Ci permettevano di campare».

Al marito non è stato consentito nemmeno di vederla in ospedale, di sapere in quale struttura fosse stata portata.

LEGGI ANCHE: Nardò, Mohammed è morto per i pomodori a cinque euro all’ora

Dal tono della telefonata, aveva capito subito che la situazione volgeva al peggio.

Si era mai lamentata della fatica?
«Siamo abituati a lavorare. E a stare in silenzio. Paola non stava male, me l’avrebbe detto. A parte la cervicale, di cui soffriva in modo cronico, non aveva altri dolori. Non era cardiopatica. Si lamentava, ripeto, soltanto di questi dolori al collo ogni tanto, ma niente che ci avesse mai fatto preoccupare più di tanto. L’avevano vista dei medici, e bastavano un paio di punture per fare passare tutto».
Come stava sua moglie quel 13 luglio?
«Bene. È uscita di casa con le sue gambe. Niente che ci potesse far pensare a quello che è successo, anche perché altrimenti non sarebbe andata al lavoro».
Poi?
«In mattinata mi hanno chiamato da Andria per dirmi che Paola si era sentita male e stava arrivando il 118. Ho capito subito che non mi stavano dicendo tutta la verità. Chiedevo: “Ma si è ripresa?”. Dopo mezz’ora di silenzi, ho capito che era morta. È stato il momento più brutto della mia vita. In un primi momento mi hanno detto fosse all’ospedale di Barletta. Poi hanno cambiato versione: Andria. Sono arrivato dopo un viaggio massacrante da San Giorgio. Ho cercato dappertutto, dai reparti alla camera mortuaria ma non risultava proprio essere entrata. Nessuno sapeva chi fosse Paola. Abbiamo richiamato di nuovo lo stesso numero e, un po’ alla volta, a pezzettini, ci hanno detto la verità: mia moglie si trovava nella camera mortuaria del cimitero. Lì l’abbiamo trovata».

E ora, l’unica cosa che il marito chiede è verità e giustizia. Assistito dal team legale, Stefano Arcuri – il marito di Paola Clemente – annuncia che porterà il caso in Tribunale fino all’ultimo grado di giudizio possibile. Perché l’unica cosa che gli interessa è sapere come è morta la moglie.

Com’è morta sua moglie?

«Non lo so. Dicono infarto. Ma non abbiamo niente, né un referto, né l’esito del soccorso dell’ambulanza. Mi hanno detto che è intervenuto il 118, ma non sono sicuro».
L’azienda per cui lavorava sua moglie dice che aveva un contratto regolare, mediato da un’agenzia interinale. È così?
«Non conosco i particolari, ma so che era assicurata». Interviene De Leonardis, il sindacalista: «Ci sono problemi, cose che stiamo verificando. Sicuramente c’era il pagamento di un intermediario ».
Ora cosa chiedete?
«Io non mi rendo ancora conto di quello che è accaduto. Ho l’impressione che lei debba ancora tornare dal lavoro da un momento all’altro, non riesco ad accettare che non sia accanto a me, a casa. Non è pensabile non vederla la sera a tavola, dal rientro dei campi, con i nostri tre figli. Paola era una cuoca straordinaria. Abbiamo comprato casa con il mutuo e a dicembre finiremo di pagarlo. Era la nostra conquista. E invece… Ci siamo sposati nel 1987, sono 28 anni di matrimonio. Non esisto senza di lei, sono solo, i ragazzi ormai sono grandi. E so che il brutto deve ancora venire. Per questo ora devo combattere per lei».
Che significa?
«Vogliamo verità. Noi siamo gente semplice. E vogliamo semplicemente sapere di cosa è morta mia moglie. Chi e cosa l’ha uccisa. Vogliamo che sia fatta l’autopsia, mi fido della magistratura: ci sono delle cose più grandi di me ma abbiamo una dignità. E ho il diritto di sapere perché la cosa più bella della mia vita non c’è più».

Copertina: Wikimedia Commons

Share this article