Non chiamateli bulli: sono criminali

Qui la scuola non c’entra. Qui le risse riprese da smartphone e rilanciate in chat non esistono. Nemmeno le domande, sibilline e cattive, lasciate con perfida innocenza sul social network dei teenager, Ask.

Non si tratta nemmeno di quelle cattiverie, subite un po’ da tutti da piccoli, che spesso ci hanno portato a reagire a quel ragazzone che ci terrorizzava e ci faceva venire mal di pancia improvvisi prima di entrare a scuola.

Non si parla nemmeno delle mie scuole medie, l’apparecchio ai denti, le derisioni delle compagnette, l’ultima scelta della squadra di pallavolo. E le rivincite, rivincite che abbiamo preso un po’ tutti, più avanti, con ironia, quando eravamo persone già forgiate e formate. Non parliamo di questo.

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Parliamo di Andrea. Andrea aveva 26 anni. Non andava a scuola. Non aveva compagni “bulli”. Andrea lavorava. In una età in cui il buio del “bullismo” dovrebbe esser solo un lontano ricordo Andrea si sentiva debole. Escluso. Violato. E non per colpa sua.

Un giorno Andrea ha avuto una crisi isterica. Era il 22 ottobre del 2013 e lui è tornato a casa fuori di sé, non riusciva a parlare. Urlava. Poi, non ha più detto niente. Non ha più voluto presentarsi a lavoro e nemmeno uscire di casa. Fino al giorno in cui ha pensato che la sua vita non fosse più degna di essere vissuta.

Un giovane uomo. Un adulto, che dovrebbe esser forte. Ma che cosa è la forza se tu, nel pieno della tua età più forte, ti trovi terrorizzato dalla vita? Se hai paura di uscire per non incontrare chi ti ha rovinato l’esistenza? Se i video che ti hanno fatto sono talmente orribili che tuo padre non ha avuto la forza di vederli? E’ ancora bullismo questo? O è qualcosa di più?

E non basta un video, o una pagina Facebook dedicata solo al suo scherno, per poter parlare di bullismo e non di quello davanti cui ci troviamo. Dopo la denuncia presentata dalla polizia postale un anno fa dal ragazzo, la procura aveva aperto un fascicolo indagando sul collega di lavoro del giovane.

«Lui era un buono – ha detto il padre di Andrea – troppo buono: sono sicuro che sarebbe stato disposto anche a perdonare chi lo tormentava. Non ne ha avuto il tempo. Io non voglio che adesso qualcuno vada in galera per questa brutta storia: voglio solo che i responsabili paghino, paghino con quello che hanno e che i soldi vadano in beneficenza alle associazioni dei volontari di Borgo d’Ale».

Responsabilità. Non si può morire a 26 anni (e nemmeno a 15) per lo scherno altrui. Non si può nemmeno usare quella parola che rimbalza solo nei fatti gravi di cronaca, bullismo, una parola che minimizza un atteggiamento, lo ghettizza come a volerlo catalogare. Una parola che non va bene quando si tratta di rovinare una vita, quando si trascende dagli scherzi e si finisce nell’uccidere.

Era troppo debole, troppo facile per le mire altrui…

No, mi spiace. Se dedichi parte del tuo tempo nel far del male a qualcuno, se, davanti all’evidenza, perseveri amplificando il suo terrore non sei bullo: sei criminale. Sei un delinquente. Vuoi far male: come chi accoltella, come chi picchia, come chi uccide.

Quello che è stato fatto ad Andrea è istigazione al suicidio. Quello che è stato fatto a un uomo, costretto alla pazzia e al tormento di una vita nel buio, è un crimine. Quello che hanno fatto a questo giovane di 26 anni è da bestie. Non si tratta di pallonate in faccia o inviti mancati alle feste. Si tratta di spingere persone a fare il salto da un balcone o dalla sedia con un cappio al collo. Il problema è che il “bullismo” non è recepito come atto criminale. Fa quasi figo “bullizzare”, ridere delle persone altrui: senza avere la coscienza di capire quando si sta superando il limite. Quando lo “scherzo” si trasforma in “scherno”, “vergogna”.

Della storia di Andrea se ne parlerà ancora. Poi calerà il silenzio fino ad altri Andrea ancora. E sarà così: finché dal punto di vista giuridico non si faranno passi più importanti. Perché poi le bulle dei video su Facebook si vantano della loro forza, e pazienza se le vittime non avranno forza di far sentire la loro voce.

Cosa possiamo fare noi? Una rivoluzione, culturale.

Non chiamiamoli bulli, chiamiamoli criminali.  Iniziamolo a farlo tutti. Ora, nel nostro piccolo. Isoliamo chi condivide lo scherno in rete, chi si crea una personalità distruggendo quella degli altri. Perché non fa ridere. Perché la disumanità non si presenta solo a 13 anni ma anche a 26, 40. Dobbiamo ricordarcelo tutti, per non diventare criminali come loro. E in ultima analisi, bestie.

(copertina foto STR/AFP/GettyImages)

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