Nardò, così Mohammed è morto per i pomodori a cinque euro la cassa

Nardò, così Mohammed è morto per raccogliere pomodori a cinque euro la cassa: 350 chili di oro rosso pagati pochi euro, “da cui bisogna togliere la quota per il caporale e quella per il trasportatore nei campi”. E’ uno dei responsabili dell’associazione Diritti a Sud di Nardò a risponderci al telefono: una delle realtà che segue più da vicino le marginalità sociali del tacco d’Italia, che si occupa di “inclusione a 360 gradi”; e inclusione, in queste zone, significa prima di tutto – ci spiega – affrontare il dramma quotidiano dei migranti sfruttati da imprenditori e da caporali spesso anch’essi immigrati, inseriti nel sistema criminale in una posizione di forza.

NARDO’, COSI’ MOHAMMED E’ MORTO PER RACCOGLIERE POMODORI A CINQUE EURO LA CASSA

Mohammed è morto all’inizio della scorsa settimana nel paese del Salento, un paese, come vedremo, già noto alle cronache nazionali per un processo “che ancora continua”, ci dicono al telefono, dal 2011. E nella stessa azienda già sub iudice per i trattamenti inumani che riservava ai raccoglitori, un migrante di 47 anni è caduto sotto il sole, “forse alle 13, forse alle 16”, ci dicono, “non siamo sicuri”. Mohammed era in Italia “dal 2001, forse dal 2000; la moglie, Marie, è qui dal 1997. Lascia due bambini: Giammatteo di 16 anni, Aisha di 3”. Per loro Diritti a Sud sta promuovendo una raccolta di fondi che, ci precisano, “non copre le spese legali” del procedimento penale che è già partito e che vede indagati “il tito­lare dell’azienda agri­cola per cui lavo­rava, la moglie di quest’ultimo e il capo­rale che lo aveva por­tato nel campo”: l’accusa, omicidio colposo. I soldi finiscono direttamente sulla carta prepagata della signora Marie.

“Lui era un bracciante stagionale, oltre a lavorare qui a Nardò aveva fatto la raccolta delle patate a Siracusa, a Cassibile, un lavoro molto duro; molti ragazzi a Nardò, i sudanesi, lo chiamano ‘un lavoro da cavallo’, per quanto è pesante. Mohammed era arrivato da Siracusa, con la famiglia vive in Sicilia, e la sera prima di morire ha cenato nel ghetto; il giorno dopo alle 13, o alle 16, è morto. Questo è ciò che sappiamo, per il resto bisognerà aspettare l’autopsia”.

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NARDO’, IL PROCESSO SABR

Una terra funestata dal caporalato, quella di Nardò; una terra che, ci raccontano, sembra non aver imparato. Imparato dal “processo Sabr”, dal nome di uno dei caporali coinvolti nel procedimento. Parliamo di una vicenda giudiziaria che va avanti, ininterrottamente, dal 2011, senza che si sia riusciti nemmeno ad arrivare al primo grado di giudizio.

Portavano nel Salento, passando per Rosarno e la Sicilia, le nuove rotte degli schiavi e dello sfruttamento della manodopera africana. Con il trascorrere dei secoli sono cambiate dunque le vie e le destinazioni di un sistema che ha trasformato i deportati in reclutati. Il vertice di quella piramide erano i datori di lavoro salentini, cui si affiancavano caporali, cassieri e capisquadra. I datori di lavoro sono gli imprenditori e proprietari terrieri

Così, nel 2011, la stampa locale; Repubblica Bari testimoniava la fierezza degli immigrati che si erano risoluti a denunciare i loro sfruttatori, impauriti eppure decisi ad andare fino in fondo in quelle aule di tribunale. “Quello che ho visto in questi anni che va al di là delle fanfare mediatiche, è che la realtà delle cose non solo non è cambiata ma è peggiorata: è morto un indiano un mese e mezzo fa, i datori di lavoro non sono cambiati, i turni e le persone per le quali lavorano sono le stesse, e chi ha la capacità di approfittarsene sono sempre gli stessi gruppi, evidentemente c’è qualcosa che non riusciamo a capire”, ci dicono al telefono, alludendo al fatto che Mohammed è morto proprio nell’azienda, come dicevamo, teatro delle vicende che hanno portato al processo Sabr. “Il Comune ora sembra volersi costituire parte civile, ma c’è dovuto scappare il morto”, sentiamo dirci dal ragazzo responsabile di Diritti a Sud. La Regione, guidata da Nichi Vendola, allora si accreditò presso il giudice come parte civile.

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NARDO’, IL GHETTO DEI MIGRANTI

Difficile ricostruire le condizioni di vita dei migranti che garantiscono che sulle nostre tavole arrivino i frutti della terra. “Qui il lavoro della raccolta stagionale è quello del pomodoro e delle angurie, e il periodo della raccolta va da giugno fino a fine agosto, massimo la prima settimana di settembre. I migranti però iniziano ad arrivare al ghetto da marzo in poi, perché devono valutare quale sarà la concreta possibilità di lavorare. Insomma: perché si mettono in fila”. Quasi mille persone lo scorso 2009, negli scorsi anni circa 300 gli uomini stipati nel “ghetto” di Nardò: “Un’ex falegnameria posta sotto sequestro dove da più anni i braccianti e i lavoratori trovano riparo”. Si trova in contrada Arene/Serrazze, un luogo che il Comune ha più volte sgomberato perché “fatiscente e inadeguato all’ospitalità” dei migranti, ma che, chiaramente, rimane utilizzato.

Quanti soldi arrivano nelle tasche dei lavoratori? “Le cifre oscillano e non è facile dare effettivamente un’idea precisa; i pomodori si pagano a cassone: ogni cassone pesa 350 kg e fornisce 4 euro, meno una percentuale che va al caporale e una che rimane al trasportatore che porta il migrante nei campi. Le angurie si pagano all’ora, diciamo 5 euro all’ora, ma sono cifre volatili, non abbiamo una contezza precisa. Possiamo dire che il migrante ha 30 euro nel portafoglio alla fine della giornata”, il tutto chiaramente con orari di lavoro massacranti: “Ho visto lavoratori ai pomodori arrivare al ghetto alle 18, e cominciano alle 5 – 5.30 del mattino; a volte tornano anche alle 19”.

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NARDO’, LA COLLETTA PER IL CORPO DI MOHAMMED

I migranti stanno facendo una colletta fra di loro, autotassandosi, per garantire che il corpo di Mohammed possa tornare a Caltanissetta, dove risiedeva insieme alla famiglia; la moglie e i figli sono arrivati, intanto, a Nardò, ospitati dal comune e assistiti dalla Caritas e dalla Cgil. “Per cambiare la situazione”, concludono dall’associazione, “la prima urgenza è risvegliare un sentimento di rabbia, di indignazione e di coscienza critica, un senso di salute pubblica che ci aiuti a ritornare alla politica come bene comune. E poi, c’è quello che modestamente cerchiamo di fare noi associazioni attraverso attività concrete, facciamo sindacalismo di base, cerchiamo di avere prima di tutto la fiducia dei lavoratori, lavoriamo sull’alfabetizzazione dei migranti. Poi, bisogna provare a cambiare il modello di sviluppo: con altre associazioni stiamo creando una filiera alternativa di produzione e distribuzione del pomodoro alternativa a quella della Grande Distribuzione Organizzata, un sistema che ci consente di pagare chi lavora 10 euro all’ora e di garantirgli i contributi e i regolari versamenti Inail”.

Immagine copertina: Diritti a Sud / Facebook

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