Tutto quello che avreste voluto sapere sul Monte dei Paschi di Siena ma non avete avuto il coraggio di chiedere

04/01/2017 di Sisto Cucco

“Storia prima felice, poi dolentissima e funesta”, prendiamo a prestito (parlando di una banca) il titolo del libro di Pietro Citati per raccontare le vicende del Monte dei Paschi di Siena, la banca più antica del mondo. Nata nel 1472 proprio grazie ai pascoli (i paschi) demaniali della Maremma dati in garanzia ai depositanti, ha una storia fatta di uno stretto connubio con la città, dalla quale ha ricevuto molto, ma ancora di più ha dato, in epoca recente in maniera assurda e spropositata.

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Ma è stata davvero una storia prima felice, fatta di prosperità della banca e della città per lunghi secoli. I problemi sono iniziati con la privatizzazione delle banche negli anni 90 e con la richiesta alle Fondazioni di diversificare progressivamente il proprio patrimonio. Un discorso che a Siena non è mai piaciuto, mentre si è alimentato per troppo tempo il mito del controllo sulla banca. “Mai sotto il 51%” è stato per lunghi anni il refrain che risuonava per le contrade. E la Fondazione si è adeguata, svenandosi per ricapitalizzare il Monte ed anche per stare dietro alle manie di grandezza di Giuseppe Mussari ed alla sua sciagurata acquisizione per nove miliardi (più sette per ripianarne i debiti ) di Banca Antonveneta dal Banco Santander. Era la fine del 2007 e tutto intorno era silenzio e compiacenza di Banca d’Italia.

Il 2007, l’anno che segna anche l’inizio del declino della potente Fondazione proprietaria della banca, simbolo degli sprechi del passato, che ha dilapidato in quindici anni dieci miliardi di euro ed ora ha un patrimonio ridotto al lumicino. Da allora Mussari, però, inanella successi aziendali e personali. Porta a casa bilanci pieni di utili, persino un  miliardo di euro nel 2010, anche se poi si scoprirà trattarsi di un rendiconto economico fasullo, viziato dalla sottoscrizione di un derivato truffa, Alexandria, firmato per ristrutturare il debito e coprire le perdite. Viene eletto per ben due volte presidente dell’Associazione Bancaria Italiana. La prima, nel giugno 2010, “per acclamazione”, salvo dimettersi nel gennaio 2013 dopo lo scoppio dello scandalo derivati.

Un periodo, quello di Mussari in MPS, dal 2006 a inizio 2012, apparentemente fantastico ma in realtà sciagurato. Sono gli anni del trio Giuseppe Mussari, Antonio Vigni e Gianluca Baldassarri. Il presidente “creativo”, il direttore generale devoto ed il direttore finanziario diabolico.  Gli anni dei dieci milioni di euro l’anno di sponsorizzazione al Siena Calcio, per mantenerlo in serie A. Dei quindici milioni alla Mens Sana Basket, che assume così il nome di MontePaschi e vince scudetti e coppe europee.

Panem et circenses. Mussari si compra benevolenza e consenso, lui uomo di Catanzaro è molto amato dai senesi, chiusi e tradizionalisti. Distribuisce soldi a pioggia, crea “pace sociale” in banca facendo accordi con le sigle sindacali e istituendo con loro una sorta di “manuale Cencelli” delle assunzioni, asseconda la politica e le sue richieste, da sinistra ma anche da destra. Garantisce dividendi alla Fondazione, anche quando non avrebbe dovuto, arrivando a nascondere i buchi di bilancio con artifici contabili o rifilando ai piccoli risparmiatori le famose obbligazioni subordinate ora oggetto di discussione in sede governativa, per decidere se e come rimborsarle. Fino a quando viene scoperto ed è costretto a dimettersi…

La situazione del Monte Paschi era già largamente compromessa quando nel 2012 arrivano Fabrizio Viola e Alessandro Profumo, rispettivamente come AD e Presidente. Si autodefiniscono “gli unici in grado di salvare Mps” ed in effetti ci vanno molto vicino. Luglio 2014, con il primo aumento di capitale da 5 miliardi di euro, rappresenta il punto più alto nella fiducia da parte dei mercati e della clientela. Anche la Borsa ci crede, segnando quota quattro euro per azione contro i quindici centesimi di euro di fine 2016.

Poi piano piano la fiducia diminuisce, arriva la BCE con le sue prescrizioni  – da novembre 2014 le principali banche italiane sono sotto la giurisdizione della Banca Centrale Europea e non più di Banca d’Italia – e MPS torna ad annaspare: un altro aumento di capitale da 3 miliardi, ulteriori tagli di costi e di filiali, maggiori accantonamenti, e soprattutto la necessità, l’imposizione di trovarsi un’acquirente, partendo dall’assunto che la banca non era più in grado di stare sul mercato da sola, “stand alone” come si dice in gergo.

Oggi è facile giudicare. Ma certamente si può dire che sul caso MPS sono stati commessi una serie notevole di errori, che hanno contribuito ad aggravare una situazione deteriorata. Eccone un elenco:

La scarsa vigilanza da parte di Banca d’Italia, che ha consentito una acquisizione folle e l’accumularsi di una mole enorme di crediti deteriorati, pari al 20 per cento del totale. Significa che uno cliente su cinque non restituisce ( o meglio, non ha restituito) i soldi alla stessa, roba da stendere al tappeto chiunque…

Lo Stato ha prestato ad un alto tasso di interesse (il 9%) circa quattro miliardi di euro alla Banca, la quale nonostante una serie di bilanci pesantemente negativi dal 2011 al 2014 li ha integralmente restituiti pressata anche da un clima politico antagonista (“niente aiuti di Stato alla banca rossa!”). Con il risultato che lo Stato è costretto  a porre mano al portafogli oggi, per un cifra più alta e senza garanzie di ritorno.

Il clima di terrore e di tagli incondizionati non ha aiutato a motivare lavoratori e dirigenti a fare tutto il possibile per superare i momenti tanto difficili.

È mancata una politica “industriale” da parte dello Stato italiano, che non ha adeguatamente difeso in sede comunitaria una banca così importante, con il risultato di far scappare gli investitori privati che si erano affacciati sulla scena prima, i sudamericani Fintech e BTG Pactual già sottoscrittori di un patto di sindacato con la Fondazione, e successivamente – cronaca di qualche mese fa – il fantomatico Fondo del Qatar.

Infine un piano industriale ambizioso, che prometteva al 2017 900 milioni di euro di utile rispetto ai 3,2 miliardi di perdite del 2012, a fronte di un taglio di costi rappresentato soprattutto da ben 8000 persone fuoriuscite dalla banca. Quelle persone non sono più in banca, ma non ci sono neanche i milioni di utile. Ci sono invece i miliardi che lo Stato, tutti noi, dovremo sborsare per una nazionalizzazione che comporta entro pochi anni – in base alle regole europee – la cessione per intero o a pezzi al miglior offerente.

Allora per la città la storia rischia di essere funesta ed i senesi potranno ammirare una volta di più lo stupendo affresco di Ambrogio Lorenzetti nelle sale del palazzo pubblico meditando sull’allegoria degli “effetti del buono e del cattivo governo”.

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