“Molenbeek centro del terrore”: l’ultimo fantoccio per non sentirsi complici

Bufale, demagogismi spicci, psicosi di massa. Ingoiamo tutto, noi giornalisti, e poi restituiamo un ritratto della realtà distorto. Ad uso, consumo e soprattutto specchio delle paure delle persone.

Molenbeek

E allora, mentre la polvere da sparo di kalashnikov e granate si depositano a terra e lasciano spazio alle lacrime, ecco trovare il nuovo centro di gravità permanente del nostro odio, del nostro moralismo militante, della nostra indignazione del giorno dopo. Molenbeek, il quartiere del terrore e dei terroristi, un pezzo di radicalismo islamico in piena Europa – così dicono quasi tutte le all news, Sky in testa –, il pezzo di Bruxelles in cui vige la sharia e i veli, burqa e non solo, sono la normalità.

Curioso che questo luogo non fosse il terrore di tutto il Continente, prima di sabato, ma fa niente. In fondo è anche rassicurante, no?

Sì, perché se esiste Molenbeek, questa Gomorra di bastardi islamici, come li chiamerebbe Belpietro, basta raderla al suolo, bruciarla e far diventare statue di sale chiunque provi a rientrarci. Oppure una bella cupola, per studiare questi reietti che corrono per il quartiere a uccidere e inneggiare alla jihad. La nostra Europa può dormire tra due guanciali: i giornalisti hanno individuato il buco nero della follia e del fanatismo, siamo a posto.

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E invece, purtroppo, non è così. Neanche un po’. Molenbeek è un quartiere normale. Di periferia, con i suoi problemi, ma decisamente più sicuro di San Basilio o Laurentino 38 a Roma (e ben più collegato e attivo, culturalmente e politicamente, che so, di Ponte di Nona). Di zone ben più pericolose ne ho incontrate, personalmente, a Barcellona, Parigi, Londra, Berlino, Milano. Per non parlare di Marsiglia, Varsavia, Bucarest e molte altre.

Molenbeek è un quartiere come molti altri. Persino meglio: ha una vivace attività culturale, a operatori sociali di alto livello, ospita non di rado artisti o aspiranti tali, perché ha affitti bassi e non è una zona in cui un metro quadro valga quanto un diamante grezzo. Ha problemi di riqualificazione urbanistica e i disoccupati sono molti, anche perché molti negozi che prima erano tra la fermata della metro e l’arteria stradale principale, stanno chiudendo, lavorando con difficoltà in un contesto che la crisi ha colpito con molta forza. Molenbeek, ve lo dice uno che ci è stato per un po’ di tempo, e che lì ha amici carissimi, non sembra un campo dell’Isis né tanto meno Raqqa. No, è un luogo in cui multiculturalismo, disagio sociale e una comunità affatto chiusa e ancor meno estremista vive, anzi sopravvive. I parchi sono percorribili anche la sera, le strade non fanno paura, le donne sono quasi tutte scoperte (ne vedo molte di più coperte a Ostia, per dire). Molenbeek potrebbe essere ovunque, ma raccontarla così ci costringerebbe a riflettere. A uscire fuori dalla guerra di religione e a entrare in quella di classe. Qual è il problema di Molenbeek, infatti? La disparità sociale, la lotta di classe, la rabbia generazionale. Che qui non trova terreno fertile, ma solo rifugio per la notte. Perché ben 5 europei erano in quel commando. Perché il problema è nostro, anche se bombardiamo la Siria. Quei ragazzi sono cresciuti in un quartiere normale di una capitale normale (anzi più civile, tollerante e integrata di molte altre). Ma povero. E dove chi ha una religione diversa, chi ha una cultura diversa, viene emarginato (non tanto dal quartiere stesso ma, magari, dagli ambienti con più risorse del resto della città). Molenbeek è periferia, ma non è banlieue. Qui non vige la sharia, per quanto ci piacerebbe pensarlo. E se è vero che dal 2001 qui hanno trovato un letto e un tetto vari terroristi, è solo perché nelle periferie povere i proprietari non chiedono documenti, contratti, controlli. No, affittano e basta, magari in nero. Oppure al Pigneto e sulla Prenestina vi hanno chiesto tutti un 4+4?

Islam-Cristianesimo. Occidente-Medio Oriente. Siria-Francia, Iraq-Usa, Israele-Palestina. Raccontatevela, e fatevela raccontare come vi pare. Ma se si muore a Madrid, Londra o Parigi, c’è dietro la disparità sociale, un capitalismo ottuso e selvaggio, la necessità di creare nuovi schiavi per un Sistema ossessionato dal Profitto e dal privilegio dei pochi. In cui il razzismo e il fanatismo che gli si contrappone hanno radici nel dolore dello sfruttamento, non nella guerra santa che ne diventa solo lo sfogo, il (pre)testo, l’arma. Sì, qui ci sono 15 moschee (come ricorda in uno dei pochi pezzi documentati ed equilibrati Marco Zatterin su La Stampa), ma perché i poveri, a Bruxelles, sono quasi tutti arabi. E così a Parigi. E presto a Berlino.
Perché se ti fermi fuori quei luoghi di preghiera – a Bruxelles ero per cercare lavoro e proprio a Molenbeek pensavo di andare ad abitare – trovi tantissimi che inveiscono con chi uccide in nome del loro culto. Senza neanche spronarli. E lo facevano ben prima del 13 novembre 2015.
Io, a Molenbeek, continuerò a passeggiare e parlare con le tante coppie miste, con i musulmani che girano con le moglie in jeans e viso scoperto. Perché qui ho trovato più coesione sociale che in molti altri luoghi in Europa. Il Potere ama gli stereotipi e le demonizzazioni. I giornalisti amano i babau. Ma Molenbeek non è il centro del terrore, è anzi il luogo da cui ripartire. Qui, come dice Francoise Schepmans, borgomastro liberale del comune, c’è una “coesione sociale” decisamente più alta che nelle periferie parigine. Qui si puà ricostruire un tessuto sociale, morale, valoriale, spirituale, emotivo ed economico comune.
Ma questo non conviene dirlo. Dovremmo ammettere di essere complici di quest’orrore. E di poterlo e doverlo combattere senz’armi, ma come dice Edgar Morin, il filosofo, con la conoscenza. E l’inclusione. A noi, però, piace pensare che è tutta colpa del Profeta, di Allah, dei fanatici bastardi.

(Credit foto pezzo e copertina EMMANUEL DUNAND/AFP/Getty Images)

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