Marco Camisani Calzolari e Internetwork City il primo social network al mondo | RAM – La rete a memoria

L'intervista all'informatico, docente universitario e divulgatore digitale che ci parla del primo social network della storia. Made in Italy

29/06/2022 di Gianmichele Laino

Nel Maggio del 1995, in un sottoscala in Via Melzi D’Eeril stava nascendo un’idea davvero rivoluzionaria. Dietro c’era l’intuizione di Claudio Cecchetto e la guida di Marco Camisani Calzolari: Internetwork City è il primo social network al mondo, uno spazio all’interno del quale gli utenti riuscivano a interagire, in un’epoca in cui la rete era un luogo dove le possibilità di interscambio erano ancora una eventualità futuristica.

«Ai tempi di Internetwork City non c’era l’idea, né l’esigenza di un qualcosa del genere – dice a Giornalettismo Marco Camisani Calzolari -. La fruizione dei contenuti, all’epoca, era essenzialmente passiva. L’interazione non era nemmeno lontanamente concepibile. È stato il primo social network al mondo, nato dall’insieme di due matti. Claudio Cecchetto ha concepito una cosa irrealizzabile e io, senza rendermi conto, ho fatto qualcosa al limite del fattibile per allora. È un po’ come quella citazione che non è di Einstein, ma a lui viene attribuita: il calabrone che non ha l’aerodinamica per volare, ma lui non lo sa e vola».

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Da Internetwork City ai social di oggi

Marco Camisani Calzolari, informatico, docente universitario, esperto e divulgatore di comunicazione digitale, ha sicuramente una posizione privilegiata per cercare di capire come l’ecosistema dei social network funzioni oggi. Ci sono delle criticità che vanno evidenziate e il rischio più grande è quello determinato dalla cosiddetta “bolla” in cui ogni utente finisce. «Dal punto di vista tecnologico, oggi, non manca nulla ai social network – spiega Camisani Calzolari -. Dal punto di vista della comunicazione, purtroppo è successo che negli anni, soprattutto su grande scala, mantenere, gestire e sviluppare i social costa soldi. I modelli di business basati sull’advertising contestuale hanno fatto sì che questo diventasse il contenuto e, con i vari algoritmi che ne sono scaturiti, oggi siamo tutti nella famosa bolla percettiva. Siamo influenzati più da meccanismi economici che da meccanismi di comunicazione. Quello che dovrebbe accadere è immaginare nuove forme di aggregazione e comunicazione libere da questi vincoli legati prettamente economici».

Una diretta conseguenza di tutto questo è l’inasprimento del dibattito, l’allontanamento delle posizioni, la divisione in fazioni. Insomma, avere un confronto sano è sempre piu raro: «La polarizzazione che stiamo vivendo in questi anni è causata prevalentemente da questo: se c’è una bolla percettiva che porta a rafforzare le tue convinzioni, tendi ad estremizzarle – dice Camisani Calzolari -. Per questo si è tutti contro tutti, con una scarsa percezione del mondo reale: si litiga, si odia, ma come se fosse un videogame. Ci sono ripercussioni anche nella vita sociale e fisica e non soltanto in quella dei social network. Tendiamo a essere tutti tifosi di squadre di calcio opposte. È un male per gli utenti, che sono, di fatto, dei cittadini, che poi votano, che poi scelgono, che poi odiano e questo non fa bene a una società che, come dicono i saggi, dovrebbe coltivare il dubbio e riflettere sulle giuste vie di mezzo».

In molti sostengono che la risoluzione di questo status quo possa essere rappresentata dalla moderazione. Tuttavia, Marco Camisani Calzolari si pone il problema di quanto questo aspetto possa rendere, di fatto, i social network dei veri e propri editori: «Internetwork City non aveva una moderazione perché allora non si pensava che potesse esserci questo problema: non c’erano le liti, ma c’era solo gente entusiasta. Oggi la penso come Elon Musk: siamo nell’epoca in cui è possibile fruire contenuti scegliendo tra migliaia di canali, non è come un tempo, quando si subiva l’informazione. Gli attuali social da una parte dicono di non essere editori perché non producono contenuti, ma poi di fatto lo sono perché li moderano: questo è sbagliato. Io sono per il free speech nei limite di una legge liberale , chiaramente con criterio: se i contenuti non sono adatti a un ragazzo minorenne, dovrà esserci una relativa protezione; o ancora, se i contenuti sono disturbanti a tal punto da far male a una persona non è più una questione di moderazione, ma di evitare che ci siano contenuti legati a reati compiuti. Per il resto, è l’utente che si automodera: se in un canale vedo solo turpiloquio e non mi piace io posso spostarmi su un altro canale, mentre altri annegheranno, felici di insultarsi dal mattino alla sera come allo stadio. Non riesco a concepire oggi, nel 2022, la censura che viene adottata nei social, a volte poco etica: se scrivi una parolaccia di troppo vieni bannato, ma poi tra un post e l’altro compare la pubblicità di venditori di casinò per minorenni e schemi ponzi. Eppure, quelle pubblicità rimangono lì».

Com’è cambiato il mondo del digitale e come Milano ha perso la sua centralità

Novità, innovazioni, evoluzioni. I social network corrono veloce, come hanno fatto dai primi anni del Duemila a oggi. È stato proprio in quella fase che si è consumato un vero e proprio sorpasso rispetto a un ecosistema digitale che, alla fine degli anni Novanta, sembrava aver trovato in Milano un polo di innovazione. Eppure, la capitale economica italiana non è diventata la Silicon Valley. Sul perché, Marco Camisani Calzolari è piuttosto netto: «Secondo me il problema è il provincialismo. Eravamo molto forti in comunicazione, Milano lo è stata in quegli anni. Oggi, invece, se devi fare advertising pubblicitario usi le piattaforme internazionali. L’innovazione italiana che partiva da Milano si è arenata quando non è più stata in grado di competere con l’estero, non tanto perché sono arrivati competitor più grandi che si sono mangiati quell’innovazione, ma perché siamo stati noi stessi a perdere il contatto con le culture anglofone, diventate illeggibili culturalmente. Oggi arrivano idee, ma non tengono conto del resto del mondo: la percezione di questi innovatori è sempre locale, non riescono a vedere su scala mondiale. Se si vuole fare innovazione digitale, oggi, bisogna pensare globalmente e confrontarsi con competitor di tutto il mondo. Molte start-up, in Italia, sono locali e dopo un po’ per quello muoiono. Il provincialismo fa anche sì che la quantità di soldi che circola intorno a prodotti locali è inferiore. Dopo il boom della new-economy degli anni Duemila, purtroppo, nel nostro Paese, abbiamo avuto un approccio sbagliato».

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