Luca Di Bartolomei scrive a Veltroni «Caro Walter, fare i conti con le nostre sofferenze ci rende migliori»

Ringrazio Giornalettismo per avermi offerto l’opportunità di scrivere di “CIAO” il nuovo libro di Walter Veltroni. Queste poche righe non hanno ovviamente la pretesa di esserne una recensione anche considerato che non avrei la competenza e le capacità bensì una modesta riflessione scaturita dopo la lettura di un romanzo che sento di consigliare.

Allora prendevo con tutti e due le mani i lembi, all’altezza dei polsini…simulavo la sensazione di un abbraccio e immaginavo il suo calore”. Sono le parole con cui Walter Veltroni confessa nel suo libro il tenero gioco inventato da bambino per cercare di trovare il calore dell’abbraccio di suo padre morto quando non aveva neppure un anno. Di questo parla “Ciao” il suo nuovo romanzo, mai tanto intimo e vero.

Per molti anni ho pensato che il dolore andasse palesato ma con una rigida compostezza. Come se l’esserne vittima, specie in giovane età, ti costringesse implicitamente ad abbandonare alcune manifestazioni esteriori, tipo le lacrime, spingendole indietro, chiudendole dentro. Del dolore, della mancanza si poteva parlare e forse si doveva parlare per esorcizzarla. Ma rifuggendo, evitando, allontanando accuratamente il pianto.

Oggi invece non provo un briciolo di vergogna nel dire che leggendo questo libro ho pianto per ore. E mentre scrivo ancora ho qualche lacrima che cade: ed è forse per questo che mi sento di consigliarlo a tutti. Saper piangere, saper fare i conti con le nostre sofferenze – anche pubblicamente – ci rende persone migliori.

Insieme con l’autore e tantissimi altri ho appreso empiricamente che il dolore ha una natura duplice: sensoriale ed affettiva. Il dolore fisico si avverte in prima persona ma in una certa misura si trasmette a chi ci è intorno. Basti pensare all’istinto di ritrarsi quando si vede una lama entrare in un corpo o emotivamente alla pena che proviamo nel vedere nostro figlio cadere per terra. Quest’ultimo, il dolore affettivo, è quella sofferenza che proviamo anche noi. Quello che condividiamo empaticamente. E i risultati delle neuroscienze hanno confermato ciò che intuiamo: il dolore si può letteralmente percepire quando si vede qualcuno soffrire. Nell’immedesimazione, nella condivisione del dolore – che va detto è un gesto di doppia amorevole generosità –importantissimi sono i particolari.

Il Parco dei Daini di Veltroni sta al mio Viale Aventino come ogni affetto che si perde bruscamente, come ogni amore reciso, trova nel dolore di un suo simile qualcosa in cui specchiarsi. E nei particolari nitidi che colorano quel ricordo di dolore trovare qualcosa di sé.

Rose Elizabeth Kennedy – madre di due figli ammazzati e moglie di un paranazista che la picchiava – una volta disse “…it has been said <

Con il tempo poi, se si ha fortuna e si è preservata la sanità mentale, forse ci si riesce ad aprire per sorriderne nel ricordalo o solo nell’immaginarlo proprio come fa Veltroni parlando ad un padre che immagina ritornare. Questo non lenisce la ferita e non colma l’assenza. Anzi. Rendendo il dolore vivo attualizza il ricordo dei giorni peggiori: quelli di cui si potrebbe descrivere ogni istante e perfino gli odori. Qualcosa che farà parte di te, che starà sempre lì e che ti farà sentire ingiustamente speciale. Anche se non è vero.

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