L’olocausto del Ruanda, che fu solo l’inizio

10/03/2014 di Mazzetta

Il 7 aprile del 1994 cominciava quello che sarà definito l’olocausto ruandese, una tragedia che paradossalmente ha finito per nascondere  la portata e la magnitudo di una crisi che da lì a poco produrrà massacri tali da far impallidire il pur tragico bilancio della breve guerra civile ruandese.

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L’OLOCAUSTO RUANDESE – Nel 1994 il Ruanda era un paese scosso da una guerra civile messa in pausa per addivenire a trattative di pace tra l’allora dittatore Juvénal Habyarimana, al potere dal 1973, e il Fronte Patriottico del Ruanda (RPF-FPR) guidato da Paul Kagame. In mezzo una missione ONU, un contingente francese, un contingente belga e una cabina di regia internazionale a provare  a gestire la crisi che comprendeva anche gli Stati Uniti. Kagame, rifugiato in Uganda con i suoi all’età di due anni aveva fatto carriera accanto a Joseveri Museveni, divenendo uno degli uomini più importanti per l’ascesa al potere di quest’ultimo, conquistata passo dopo passo in una sanguinosa guerra civile. Dai campi profughi in Uganda Kagame ripartirà con i suoi per la conquista del paese dal quale la sua famiglia era fuggita molti anni prima e grazie alle sue indubbie capacità militari riuscirà a mettere in notevole difficoltà un regime caricaturale come quello di Habyarimana.

LA SCINTILLA – Il 6 aprile l’aereo che porta il dittatore e il presidente del vicino Burundi, Cyprien Ntaryamira, viene abbattuto da uno o più missili terra-aria mentre sta per atterrare a Kigali, la capitale del Ruanda. L’aereo aveva un equipaggio francese e la Francia ha indagato a lungo sull’incidente, nel 2006 l’inchiesta francese si conclude indicando in Kagame il responsabile dell’abbattimento. Kagame a quel punto accusa a sua volta i francesi di aver fabbricato questa conclusione per ridurre il peso delle proprie responsabilità nel genocidio. La francia ha ripetuto l’inchiesta e ha concluso nel 2012 che i missili non potevano essere stati lanciati dalla zona occupata dagli uomii di Kagame. Dodici anni per la prima inchiesta, sei per la seconda, diciotto per non trovare alcun responsabile.

FIUMI DI SANGUE – Il 7 aprile comincia il genocidio, comincia con soldati, poliziotti e miliziani che uccidono i leader Tutsi e anche quelli Hutu troppo moderati, dopo di che sono eretti posti di blocco ovunque e chiunque risulti Tutsi dai documenti viene ucciso sul posto. Ma non basta, poi viene l’incitamento agli Hutu ad armarsi e a far strage dei Tutsi, che nel paese sono la minoranza, a distruggere e a saccheggiare le loro case, gli Hutu che cercano d’opporsi o che non collaborano sono uccisi allo stesso modo. Il genocidio è così portato a termine a colpi di machete o di bastone e il bilancio sarà relativamente contenuto solo grazie alla prontezza con la quale oltre due milioni di ruandesi si proiettano al di fuori dei confini. Un bagno di sangue che getta il paese nel caos e permette a Kagame di agire muovendo dalla parte della ragione, a metà luglio dello stesso anno le sue truppe conquistano Kigali e il controllo del Ruanda, che da allora controlla con il pugno di ferro. La rivalità tra Hutu e Tutsi aveva radici antiche che coincidono con l’arrivo dei colonizzatori europei, furono infatti i tedeschi ad eleggere i Tusti a classe dirigente e i belgi apprezzarono l’intuizione, creando così una classe di privilegiati inevitabilmente visti come i cani da guardia dei colonizzatori.

TUTTO CHIARO – Sul genocidio del Ruanda sono stati scritte infinite analisi, girati film e documentari e anche nel paese è stata accurata l’opera di ricostruzione storica degli eventi di quei mesi infami, non ci sono misteri, i testimoni hanno parlato, i documenti hanno confermato, solo il conto delle vittime è molto approssimato ed è compreso tra il mezzo milione e il milione, per un paese che oggi conta otto milioni d’abitanti sono numeri impressionanti . Le responsabilità sono state accertate e chiamano in causa l’ONU, che non volle modificare le regole d’ingaggio della missione nel paese, né mobilitare gli uomini disponibili nel vicino Congo a nemmeno suonare l’allarme, ma chiamano in causa soprattutto tre paesi occidentali, la Francia che ebbe una parte attiva nell’innescare e nell’alimentare il conflitto, il Belgio che pur essendo il referente coloniale se ne lavò le mani e gli Stati Uniti, che dopo il disastro e le perdite della missione in Somalia (Restore Hope – missione Ibis) non ne voleva sapere di contingenti ONU in assetto di combattimento in mezzo a un paese africano in piena anarchia.

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