L’intervista a Paolo Gentiloni sull’Europa: «Polemiche inutili»

Paolo Gentiloni, ministro degli Esteri, sull’Europa prova a chiudere ogni spazio di polemica: “Inutili” le frasi di Jean Claude Juncker, presidente della Commissione Europea che ieri ha usato parole di fuoco nei confronti del nostro paese. Parole che il titolare della Farnesina preferisce lasciar correre, andando a concentrarsi sulle “sfide” che sono davanti allo spazio dell’Unione: dai migranti, alla flessibilità nelle politiche finanziarie; il tutto non rinunciando, comunque, a rispondere colpo su colpo ai temi posti dall’esponente del Partito Popolare Europeo che attualmente guida l’organo esecutivo dell’Europa, e che ha sottolineato, ieri, come i rapporti fra Roma e Bruxelles siano al livello minimo.

PAOLO GENTILONI: “LE POLEMICHE DI JUNCKER INUTILI”

Sul Corriere della Sera l’intervista al titolare della Farnesina.

Nell’ultimo mese abbiamo fatto diverse cose in Europa, non tutte in sintonia: iniziativa congiunta con Londra, critiche a Germania e a Commissione, riunione (rinviata a febbraio) dei capi delle diplomazie dei 6 Paesi fondatori per il rilancio dell’integrazione. C’è una strategia che sta dietro tutto questo attivismo? 
«Oltre a difendere, come fanno tutti, i propri interessi nazionali e i propri diritti, l’Italia scommette sul rilancio della Ue nella convinzione che da un lato esso debba essere legato a una politica economica più espansiva, dall’altro alla prospettiva di un gruppo di Paesi che possa avanzare nell’integrazione, anche in presenza di altri partner che questo sviluppo non vogliono. Dal mio punto di vista non c’è contraddizione tra condividere con gli inglesi l’idea di un’Europa a due cerchi concentrici e contemporaneamente progredire nel livello di integrazione tra Paesi disponibili». 
Juncker ci contesta la mancata apertura degli hot spot per registrare i migranti, i decimali di flessibilità di bilancio presi senza concordarli con la Commissione, la riserva sui fondi alla Turchia per i rifugiati siriani. 
«Se il tema è la flessibilità, l’Italia usa i margini previsti dalle regole in vigore. Mi sembra non rilevante la polemica su chi l’abbia introdotta. È ovvio che operativamente è stata una direttiva della Commissione, ma politicamente fu un’iniziativa della presidenza italiana». 
Juncker definisce «stupefacente» la riserva a finanziare la sua quota dei 3 miliardi promessi ad Ankara per i rifugiati siriani. Perché freniamo? 
«L’Italia non può certo essere accusata di frenare sull’immigrazione o sul dialogo con Ankara. Si discute sulla possibilità che i 3 miliardi gravino sul bilancio comunitario più che su quelli degli Stati membri. Tutto qui». 

Parlare dell’Europa, e parlare con l’Europa, è in realtà parlare della Germania e con la Germania.

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È saggio oggi avere un atteggiamento critico nei confronti della Germania? 
«Noi abbiamo con la Germania una consonanza totale su moltissime materie europee: politica estera, migrazione e altro. È vero che abbiamo opinioni diverse sulla politica economica. Se qualcuno descrive questo come una guerra italo-tedesca, non posso farci nulla». 
Però non avevamo mai rimproverato pubblicamente a Berlino un atteggiamento egemonico. 
«Certo non è di poco conto la distinzione sull’economia, sul peso da dare alle regole di bilancio rispetto agli investimenti, all’unione bancaria, eccetera, poiché è evidente che il passaggio è molto delicato. Per l’Europa, che finalmente è uscita dalla fase più acuta della crisi, è cruciale decidere se incoraggiare i segnali di ripresa o continuare a tenere il freno tirato. Se la discussione di queste settimane fra noi e la Germania è più aperta, è perché c’è in ballo qualcosa di molto importante». 
Esiste a suo avviso una vocazione egemonica della Germania? 
«È negata da tutti gli esponenti politici tedeschi di qualche rilievo. Penso comunque che il vecchio assunto della Germania europea e non dell’Europa tedesca come vero interesse della Germania sia sempre valido. Poi è chiaro che esiste un vantaggio competitivo nel loro surplus, che i tedeschi intendono sfruttare chiedendo un po’ di flessibilità al contrario sulle regole. Loro non si scandalizzano a farlo, non devono scandalizzarsi se lo facciamo noi». 

 

Ed è proprio dalla Germania che, dopo i fatti di Colonia, i confini dell’Europa inizano a cambiare: i confini della politica, del pensiero, della società e della realtà europea. L’Italia che ne pensa?

I fatti di Colonia hanno cambiato alcuni dati fondamentali del dibattito sull’immigrazione. Anche la cancelliera Merkel ha aggiustato in senso restrittivo la sua politica di apertura. Qual è la nostra posizione alla luce di questi nuovi sviluppi? 
«Dobbiamo combinare accoglienza e identità. E nella nostra continua sottolineatura della dimensione culturale del contrasto al terrorismo, c’è anche il discorso sulla difesa dei nostri valori e della nostra identità, su cui dobbiamo investire. Non c’è un multiculturalismo facile nell’Europa di oggi. L’Italia rivendica continuità di atteggiamento, fa la sua parte, investe molte risorse nel soccorso e nell’accoglienza, sollecita un’iniziativa comune europea sull’immigrazione, a partire dalla modifica delle regole di Dublino e dal diritto d’asilo comune. Il rischio odierno è che si sottovaluti l’importanza e l’investimento necessario per questa politica, tornando a scaricare gli oneri prima sui Paesi vicini e infine sui Paesi di primo arrivo, come la Grecia. Sappiamo bene che se Atene deve da sola accogliere o rimpatriare 800 mila profughi, questo non accadrà. Il pericolo è che a primavera, con la ripresa dei flussi, risorgano le frontiere». 
Ma è d’accordo, come avverte Juncker, che se salta Schengen salta l’Europa? 
«Non conosco un mercato unico che non comprenda anche la libertà di circolazione delle persone». 
Sul diritto d’asilo a che punto siamo? 
«Passi avanti ne sono stati fatti pochi. Una politica di rimpatri che, sulla base delle cifre dell’anno scorso, dovrebbe riguardare grosso modo 300 o 400 mila persone richiede una dimensione europea, con una lista condivisa dei Paesi sicuri e degli impegni finanziari comuni. In questo momento non c’è la percezione di questa necessità. Alcuni Paesi, come ad esempio Germania, Svezia, Italia, fanno uno sforzo straordinario. Ma il grosso dei 28 è come se stesse a guardare pur sentendo l’arrivo di una tempesta» . 

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