L’equivoco del «vero Islam»

12/01/2015 di Massimo Zamarion

Partiamo però da un altro equivoco: la «secolarizzazione», intesa solitamente come fenomeno contrario alla religione. La secolarizzazione, in realtà, è figlia del Cristianesimo. E’ stato il Cristianesimo a distinguere la religione dal secolo, la chiesa dallo stato, a dare a Cesare quel che è di Cesare: a dare, cioè, al secolo quel che è del secolo. Prima di Cristo (e anche dopo, al di fuori del mondo cristiano) questa distinzione poteva albergare incerta, proprio perché priva della risposta della Rivelazione, nella mente dei filosofi, ma era in genere inconcepibile. Ciò non significa che il connubio stato-religione avesse un’impronta totalitaria (ché anzi ciò può verificarsi solo in tempi post-cristiani) ma la sensibilità religiosa dell’individuo era come irretita in un cerchio chiuso, in un sistema di riti attraverso i quali una società o una tribù, onorando i propri dei, «santificava» se stessa. Un Dio universale che parlasse al singolo uomo (e quindi a tutti gli uomini di tutto il mondo) poteva stare, appunto, solo nella testa di qualche filosofo, magari sospettabile, proprio per questo, di empietà o «ateismo».

Una «verità» che abbia coerenti ed universali implicazioni etiche non può che trovare fondamento nella metafisica. Altrimenti essa può essere solo la sempre mutevole figlia di un mondo – il nostro – fatto di tempo e di spazio e in continua mutazione; una precaria «verità» funzionale alla sopravvivenza di una determinata società. Con la Rivelazione questa verità metafisica si manifesta, «si fa carne», risponde alle domande che «sono iscritte nel cuore dell’uomo», e s’impone come «dogma». E’ appunto il dogma che adesso marchia la natura della religione e la distingue da quella dello stato. Lo stato viene riconsegnato interamente al secolo e l’uomo acquisisce una doppia cittadinanza: una terrena dallo stato, una eterna dalla chiesa. Benché correlati, in quanto una società a-morale non può sostenersi, i fini dello stato e della chiesa sono diversi; così come l’organizzazione, sempre figlia dei tempi nell’uno, sempre piramidale, essenzialmente, nell’altra. E benché derivanti da un’unica fonte, legge positiva e legge morale cominciano a divergere, in quanto allo stato bastano norme che, pur senza andare contro la legge morale, siano sufficienti ad assicurare la sua esistenza: lo spazio disegnato da questa diramazione, tendenzialmente sempre più vasto, è il campo della secolarizzazione e delle libertà civili. L’avvento del Cristianesimo fu la grande chiarificazione che «impostò» la civiltà occidentale.

Se questa chiarificazione pone le libertà civili su un terreno più saldo e definito, e quindi, nel lungo termine, in una prospettiva di espansione ininterrotta, è anche vero che il suo venir meno porta in tempi post-cristiani a conseguenze catastrofiche, visto che non si può più tornare indietro all’irrisolta situazione precedente. Solo in un’epoca post-cristiana si possono avere fenomeni di «totalitarismo». Le libertà civili scompaiono di conserva col restringimento del campo della secolarizzazione, e scompaiono del tutto quando la legge morale viene a coincidere con la legge positiva. Ciò può portare a due esiti, entrambi, a ben vedere, di tipo messianico: una teocrazia, o uno stato etico.

In questo quadro la Chiesa, il Cristianesimo sono presìdi della legge morale e dei diritti naturali, che nel dogma trovano un suggello divino. Naturalmente i diritti naturali non stanno nella coscienza viva solo dei cristiani, ma la storia dimostra che senza il Cristianesimo essi sembrano privi di difese «naturali», perché anche chi si rende conto che la licenza e la trasgressione portano la società all’autodistruzione, ed invoca il ritorno al «decalogo», spesso non chiude il cerchio della sua riflessione ammettendo la realtà di una verità trascendente. Chi vuole «democratizzare» la Chiesa, chi vuole una Chiesa senza dogmi, chi vuole conformare la Chiesa al secolo, chi vuole «secolarizzare» la Chiesa, in realtà distrugge la Chiesa, e distrugge anche la secolarizzazione, perché distrugge uno dei suoi baluardi: la legge dello stato diventa la sola fonte dell’etica; nessuno può più sindacare liberamente sui comportamenti altrui; la società viene privata della sua coscienza, e diventa un corpo senza anima.

Nell’Islam, che culturalmente è un figlio assai rozzo sia dell’Ebraismo che del Cristianesimo, Dio non si fa carne, non si fa uomo. Non è un Dio che si limita a confermare l’uomo nelle verità ultime, e ad invitarlo a custodirle, ad indagarle, a chiarirle, a definirle: «lo Spirito vi insegnerà ogni cosa», dice, invece, Gesù ai suoi discepoli. Non è un Dio che distingue i dogmi dai precetti e dalle leggi. E’ un Dio che detta tutto. E’ un Dio che nega la storia. E’, ancora una volta, un messianismo. Ed è vero che non c’è niente di più contraddittorio dell’interpretazione letterale di un testo. Ed è per questo che i musulmani non sono mai riusciti a mettere insieme un corpo dottrinario coerente ed uniforme e non hanno una Chiesa. Ma in tutte le sue versioni, «moderate» o «integraliste» che siano, l’Islam come religione rimane prigioniero della sua natura precettistica, fideistica e legalistica insieme. Non vi è distinzione tra legge morale e legge positiva, e quindi non vi è alcun spazio per la secolarizzazione e per le libertà civili. L’Islam può vivere solo nel suo tempo, mentre il Cristianesimo può vivere in tutti i tempi. Oggi viviamo in un mondo profondamente secolarizzato, perciò culturalmente cristiano, nonostante le apparenze, e nonostante sia scosso da profonde pulsioni anticristiane. E perciò è l’Islam ad essere sotto una pressione terribile, mortale, nonostante le apparenze: di qui le sue convulsioni.

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