L’abbiamo fatta grossa: Carlo Verdone torna il giaguaro di una volta – RECENSIONE

L’ABBIAMO FATTA GROSSA –

Il trailer mente. Ve lo diciamo subito, perché L’abbiamo fatta grossa è molto più divertente, e strutturato, di quello che quelle poche decine di secondi dicono allo spettatore. Carlo Verdone sembrava in una lunga seppur prolifica fase calante. Un declino che si potrebbe individuare in Viaggi di nozze, ultimo cult sfornato da quel genio della comicità. Quasi vent’anni di ombre, con momenti di luce come Ma che colpa abbiamo noi, il finale profetico e feroce di Gallo Cedrone (che vale il prezzo del biglietto) e in parte Io, loro e Lara. Il resto è un generoso e tenace tentativo di reinventarsi, di uscire dai suoi personaggi, da quelle meravigliose variabili impazzite con cui sapeva disegnare, su di sé e sui suoi impareggiabili caratteristi, la nostra società. E’ diventato più corale, ha cercato di formare coppie (con Silvio Muccino, rovesciando l’idea di In viaggio con papà, e Paola Cortellesi, ad esempio), ha provato a trovare un’altra via creativa. Riuscendoci a corrente alternata ma contando sempre su un pubblico fedele. Una sorta di Woody Allen che, anche a scartamento ridotto, sa tenerti lì sulla poltrona, in attesa della finezza, della giocata da campione, che comunque arriva. Ma pensando alla sua cara Roma, ormai era diventato più Gervinho – capace di incantarti ma spesso inefficace – che Totti.

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L’abbiamo fatta grossa è una svolta, una gioventù ritrovata: perché il regista, attore ed autore (ha scritto il lungometraggio con Plastino e Gaudioso) sembra far pace con tutte le sue anime e, contemporaneamente, scova la sua anima comica gemella. Sì, perché Antonio Albanese, dopo un inizio diesel e troppo timido, in cui si rifugia in qualche smorfia di troppo, ritrova in Verdone l’antica verve, surreale e fisica, e così fa il grande Carlo, che non disdegna espressione delle sue, riprese con orgoglio dal passato, insieme a una maturità diversa, che da regista e interprete lo catapulta in un noir sgangherato, dolce e divertente. Una strana coppia che può regalarci momenti deliziosi alla Lemmon e Matthau e che speriamo torni presto insieme. Possono, anzi devono, darci ancora molte altre  gioie.

L’ABBIAMO FATTA GROSSA, LA TRAMA –

Arturo Merlino (Carlo Verdone) è un investigatore mediocre, vive con la zia, è sempre in bolletta ed è innamorato di una barista dell’est Europa a cui fa credere di essere una sorta di agente segreto, anche se al massimo riesce a mettere le sue doti di ex carabiniere al servizio di una vecchia coppia a cui recupera un gatto dispettoso (Giuliano Montaldo e Vera Pescarolo, che cameo delizioso) o alle solite infedeltà coniugali. Per questo lo contatta l’attore fallito e smemorato Yuri Pelagatti (Antonio Albanese), che vuole smettere di pagare l’assegno di mantenimento all’ancora amata moglie e cerca prove della sua nuova storia con l’avvocato divorzista.
Accetta, il nostro sgangherato Marlowe, e decide di intercettare quest’ultima, finendo per caso in un intrigo da un milione di euro. E da qui parte una reazione a catena fatta di molta comicità, un po’ di suspense e gradevole intrattenimento.

L’ABBIAMO FATTO GROSSA, LA RECENSIONE –

Forse non siamo ai livelli del Verdone degli anni ’80 e primi anni ’90, ma c’è in lui una nuova vitalità che temevamo perduta. Figlia di un paio di scelte davvero indovinate, come quella di Antonio Albanese – come successe con Margherita Buy, si mette vicino qualcuno alla sua altezza e questo crea un dialogo e confronto vivacissimo, invece di una coppia “squilibrata” come le precedenti – e in sceneggiatura aggiunge al sodale Pasquale Plastino anche Massimo Gaudioso, che è una garanzia e si sente nell’impianto solido dello script. C’è una felicità di racconto in L’abbiamo fatta grossa e un gusto nel recitare, di giocare insieme tra due grandissimi, che ti porta a entrare nel film con leggerezza e interesse. Carbura lentamente all’inizio, anche perché la scrittura dell’opera ha due piani narrativi – la sfiga dei protagonisti e un noir niente male, al di là di un paio di battute goffe di chi ancora deve navigare al meglio il genere – e deve gettare le fondamenta di una trama intricata al punto giusto. Verdone non ha paura: alla Woody Allen cerca il suo Match Point alla romana, ma senza virare sul drammatico e rimanendo sul fiabesco, torna senza paura sui suoi personaggi, citandoli amorevolmente (Arturo che fa il Sergio di Borotalco al Caffé Tevere è meraviglioso, come rivedere un parente amato e lontano) come fa con Benigni (quando inventa per sé il nome Mario Cioni), trova finalmente un personaggio che ha una sua tridimensionalità e c’è di nuovo, in lui, quel talento per i caratteri unici di una Capitale che è specchio del paese. La barista dell’Est (la soprano Anna Kasyan) è il racconto dei nuovi capitolini di questi decenni, ma anche il vigile che compare in una sola scena (Ernesto Fioretti, salito alla ribalta con la sua vita raccontata da Elio Germano ne L’ultima ruota del carro di Veronesi), fino al boss insospettabile Massimo Popolizio (ormai è una garanzia nei panni dell’elegante bastardo) e al netturbino a cui regala la battuta più bella del film – una di quelle che ci racconteremo e ripeteremo fino allo stremo nelle nostre serate verdoniane in cui citeremo scene e battute dei suoi capolavori -, e la assegna a un altro, con generosità, come spesso ha fatto anche in passato.

Chissà se c’entra Facebook e la pagina appena aperta (ma su cui si lavorava da mesi). Chissà se l’autore ha spiato anche da lì la nuova (dis)umanità nostrana, chissà che non abbia recuperato tra social e vie della sua Roma quell’intuito unico che solo lui ha dimostrato per quasi vent’anni, restituendoci una città e intere classe sociali altrimenti ignorate. Albanese, da par suo, si fa spalla e stimolo del protagonista, dopo qualche minuto di iniziale disorientamento per lo spettatore, tira fuori quella sua potentissima vena che calca sulla mimica e sui movimenti del corpo, sulla sua capacità di giocare su toni e parole, su quella maschera che qui non si fa prigione ma, anzi, opportunità. Per sé e per il compagno d’avventure.
E’ così che ci troviamo davanti un lungometraggio che nonostante i suoi 112 minuti si fa guardare con gusto – persino nel finale troppo lungo, anche per l’ultima scena che è omaggio perfetto a commedia dell’arte e all’italiana -, una storia gentile che ci fa ritrovare un Verdone più libero creativamente (che Aurelio e Luigi De Laurentiis, come ha fatto con il film di Natale e con Natale col Boss, abbiano deciso di lasciare briglie più sciolte ai loro cavalli di razza?) e capace di nuovo di coinvolgerci e farci ridere, di intenerirci con due candidi ingenui che alla fine sanno essere (anti)eroi.
Bentornato Carlo, ora non azzardarti a lasciarci ancora.

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