Adele e Paola, le eroine del Jolly Nero: una realizza il sogno del marito, l’altra lotta per la verità sul figlio

15/06/2016 di Redazione

Una mamma riesce ad ottenere l’adozione desiderata di una bambina che aveva ricevuto in affidamento inseme al marito Marco, sottufficiale della Marina deceduto. Un’altra mamma lotta per la verità sulla morte di suo figlio Giuseppe, marinaio della Guardia Costiera. Sono le storie di donne che emergono dal processo per il disastro del Jolly Nero, il portacontainer che il 7 maggio 2013 si schiantò contro la banchina del porto di Genova causando il crollo della torre di controllo adiacente e la morte di 9 persone. A raccontarle è un articolo del Corriere della Sera a firma di Giusi Fasano:

Quella sera Paola De Carli era a casa con il suo figlio biologico e con la bambina avuta in affidamento nel 2007, quando aveva 8 mesi. Mancava poco per ottenere l’adozione tanto desiderata da lei e da suo marito Marco, sottufficiale della Marina. Erano già, di fatto, una famiglia. Serviva solo l’atto finale, dare alla bambina il cognome di Marco (De Candussio). Ma Marco morì nel crollo della torre e per Paola tutto divenne buio. Come sarebbe andato a finire quel sogno dell’adozione? Ieri, in aula, è arrivata la risposta: è stata concessa, a lei e anche al marito che non c’è più, «l’unica buona notizia in una storia di sofferenza», per dirla con le parole del suo avvocato, Andrea Divano.

 

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JOLLY NERO, L’INCHIESTA DELLA MAMMA DEL MARINAIO MORTO

La mamma del marinaio si chiama invece Adele Chiello. Il ragazzo, scomparso all’età di 30 anni, si chiamava Giuseppe Tusa. Per lui la donna chiede «solo verità e giustizia». Dice espressamente di non essere interessata alle pene severe o meno severe che saranno inflitte a chi sarà ritenuto colpevole del disastro. Ma a conoscere i dettagli dell’accaduto. Per riuscirci ha realizzato una valida inchiesta personale, parallela. Racconta ancora Fasano sul Corriere della Sera:

Avere verità e giustizia è diventata la missione della sua vita e Adele, 60 anni, in questi anni ha fatto di tutto per arrivarci. «Di tutto vuol dire mille cose» riassume la sua avvocatessa, Alessandra Guarini. Per esempio cercare, contattare e sentire di persona i testimoni di quella sera di cui aveva letto i nomi sui giornali; studiarsi tutti gli atti — tutti — fino a conoscerli praticamente a memoria; ingaggiare e pagare di tasca propria consulenti tecnici per capire se e quali punti deboli c’erano nella ricostruzione degli inquirenti; mettere sulla sua pagina Facebook ogni documento, ogni video o fotografia utile alle indagini; studiare a fondo la normativa sulle certificazioni di sicurezza delle navi e sulle autorizzazioni per la costruzione della torre di controllo. Insomma, un’inchiesta personale e, diciamo così, parallela a quella della Procura. Grazie alla quale ha potuto opporsi all’archiviazione dell’indagine sulla costruzione della torre. Il Gip le ha dato ragione e ha ordinato che venisse riaperta per altri otto mesi (è ancora in corso).

Ma a commuovere sono le parole di questa madre coraggio. Adele Chiello Tusa, martedì, così si è rivolta al magistrato, con tono fermo e risoluto.

Vede signor giudice…io avevo affidato mio figlio allo Stato e lo credevo in mani sicure. E invece l’ho visto tornare a casa in una bara di legno. A me non interessa che puniate questi imputati o che li mandiate in prigione buttando via la chiave. Ditemelo voi chi e per cosa è colpevole. Io voglio solo verità e giustizia, sono qui per questo. Ho visto le sue mani. Le dita erano consumate… chissà quanto tempo avrà provato ad aprire quella porta

(Immagine dei Vigili del Fuoco da archivio Ansa. Credit Image: Song Jian / Xinhua / ZUMAPRESS.com)

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