Isis, la psichiatra che “cura” i jihadisti

Sta venendo passo a passo smontata la ricostruzione, già d’altronde ampiamente insoddisfacente e un po’ retorica, dei terroristi dell’Isis come “ragazzi del disagio e dell’emarginazione sociale”, provenienti dalle banlieues parigine più disastrate: in realtà, si tratta di famiglie sostanzialmente acquisite alla classe media, e che della classe media hanno tutti i problemi tipicamente occidentali: la disoccupazione, la mancanza di prospettive nell’Europa della crisi, il disagio familiare. Ne sa qualcosa Sonia Imloul, la psichiatra dei jihadisti in erba, i ragazzi più esposti alla propaganda, che lavora in un centro specializzato alle porte di Parigi.

ISIS, LA PSICHIATRA CHE “CURA” I FUTURI JIHADISTI

L’ha intervistata la Stampa.

Qual è il profilo tipo di questi giovani?

«Bisogna liberarci di certi luoghi comuni, come la caricatura del ragazzo emarginato, abbandonato dai suoi genitori. Io ho a che fare con tanti che vengono dal ceto medio, da famiglie normali. E talvolta abbienti. Mi affidano anche molti convertiti, di famiglie francesi di origine, che con il mondo musulmano non avevano niente a che fare»

Ma allora perché diventano degli invasati?
«Hanno un malessere dentro. Spesso dei traumi nascosti e non ammessi. Abbiamo trattato una ragazza che era stata violentata da piccola e non l’aveva mai detto a nessuno. Uno dei problemi ricorrenti è anche l’assenza della figura del padre»

 

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La sua attività viene chiamata, significativamente, “deradicalizzazione”.

Il ruolo della propaganda su Internet?
«Quando uno inizia a guardare quei video, il 50% della radicalizzazione si è già compiuta».

Questi giovani credono di vivere in un videogioco dove si fa la guerra?
«Altro luogo comune. Quel discorso può valere per i ragazzi più piccoli. Abbiamo a che fare con giovani tra i 20 e i 25 anni. Sono ben coscienti che andranno a combattere davvero, che probabilmente moriranno».

I metodi dell’equipe psicologica, chiaramente, sono mantenuti segreti.

Lei come agisce concretamente?

«Nella mia équipe ci sono psicologi e giuristi. E soprattutto assistenti sociali, quasi sempre coetanei di quelli che dobbiamo trattare. Tutti conoscono bene la religione musulmana. Dopo che la famiglia ha chiamato, mando uno dei miei collaboratori a incontrare il giovane: meglio se lui neanche sa che i genitori hanno contattato il numero verde. L’incontro avviene fuori dal contesto familiare».

E poi?
«Guardi, è come per gli chef che non vogliono rivelare i loro segreti. Noi abbiamo sviluppato delle tecniche che vogliamo tenere segrete. È un lavoro lento, laborioso. Ci vuole flessibilità, bisogna essere furbi».

Un caso di cui è particolarmente fiera?
«Un piccolo delinquente che si era avvicinato al jihadismo in prigione. Una volta fuori, la sua trasferta era già organizzata. Siamo riusciti a intercettarlo e, piano piano, a tirarlo fuori da quel mondo».

E ora?
«È ritornato a commettere qualche reato comune. Ma per me l’importante è che non vada in Siria. E che non diventi un kamikaze».

Copertina: AnsaFoto

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