Isis, “la mia vita dopo la Jihad è solo depressione e alcolismo”

Isis, dopo la Jihad per i militanti non sempre c’è la felicità eterna sia in terra che in cielo. Alcuni di loro, partiti per la costruzione fra la Siria e l’Iraq del Califfato dello Stato Islamico, tornano a casa nel disonore. Nella depressione. E sprofondano nell‘alcoolismo e nella damnatio memoriae dello stesso ambiente islamico che li ha cresciuti: spesso dopo essere stati costretti a uccidere arabi, mussulmani, confratelli. Qualcuno non ci dorme la notte.

ISIS, JIHAD, DEPRESSIONE E ALCOLISMO 

E dire che i reclutatori della Jihad islamica propongono la lotta al servizio del Califfo proprio come una panacea contro le depressioni e la mancanza di senso della vita. “Sapete, fratelli che vivete in occidente, so come vi sentite, vivevo anche io lì, so che nel cuore siete depressi. La cura per la depressione è la Jihad militante”, dice in un video di reclutamento uno dei miliziani arrivati dall’Europa, riportato mesi fa dalla Rt. Ma una volta convinti giovani islamici a fare il viaggio verso le regioni della Guerra Santa, non tutti rimangono soddisfatti.

«Beve». Con tutto quel che Abu Hamza Ettounsi ha combinato in Siria, gli sgozzati e il resto, adesso quel che scandalizza di più è che s’ubriachi. Una volta era un eroe della Jihad. Combattente volontario dello Stato islamico. Era partito che ci credeva. E i suoi amici salafiti credevano sarebbe diventato un martire, l’onore di Biserta. Una sera di metà gennaio, Abu Hamza è ricomparso. Sulla tv tunisina. Aveva la faccia oscurata, ma l’hanno riconosciuto lo stesso. «Pagato», dicono con disprezzo: a raccontare che la guerra santa non è come la raccontano, che lui non ce l’ha fatta più ed è tornato. Un reduce alcolizzato.

Così racconta il militante tunisino al Corriere della Sera, raggiunto nella città portuale di Biserta, aggiungendo: “Ho visto bruciare vivi 128 uomini. Musulmani come me. Non ho capito perché dovessero morire. Li sogno tutte le notti. E l’unico modo per non pensarci è bere”. La famiglia rifiuta ulteriori interventi per paura di rappresaglie, “la polizia gli ha vietato ulteriori interviste”.

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FRA SENSO DI COLPA E TRISTEZZA 

 “E’ colpa mia”, dice la madre di un miliziano ora nel carcere di Baghdad: “Io facevo la cameriera in un hotel di Tunisi, ogni settimana veniva un salafita a insegnare il Corano e un giorno gli ho chiesto se poteva insegnare qualcosa anche al mio bambino: non immaginavo gli avrebbe riempito la testa di cose sbagliate”. Un marocchino spiega ai giudici del suo paese: “ L’Isis mi ha fatto stare nelle sue guest house con internet, la tv, tutti i comfort. Poi ho capito che non ero lì per combattere Assad: il mio nemico era l’Esercito di liberazione siriano. Avevo lasciato soli i miei figli per uccidere altri arabi! L’errore più grande della mia vita”. Qualcuno, continua il Corriere della Sera, non si pente affatto. 

A 60 km da Tunisi, nel vecchio porto di Biserta, i gendarmi fino a qualche mese fa non s’avventuravano nemmeno: le ronde le facevano i cinquecento salafiti di Abdul Salam Sharif, spilungone identico a Bin Laden, un reduce d’Afghanistan che dal suo chiosco di vestiti mandava a punire le donne mal velate, gli spacciatori, chi beveva. Reclutava, anche. C’è voluto un reportage della Bbc , che ha scioccato i laici di Tunisi, a fargli chiudere baracca e cambiare aria. La polizia gli ha dato il foglio di via, i suoi fedelissimi sono ancora qui. «E’ scappato in Algeria. Ma sappiamo che tornerà. E lui non è pentito di niente».

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