“Il pane in Italia? Viene dalla Romania”

Senza autorizzazioni. Ma di alta qualità

Il pane che mangi in Italia potrebbe non essere stato fatto da noi, ma in Romania. Paolo Berizzi su Repubblica ricostruisce il ciclo di produzione del prodotto, i processi industriali e quelli di esportazione e vendita, scoprendo che in molti casi viene portato da paesi esteri:

Sui Tir frigoriferi e in aereo quello diretto a Nord (molto Veneto e Friuli Venezia Giulia). Via Croazia, e poi attraverso l´Adriatico, se va al Centro o a Sud. A San Marino importato dalla camorra per le mense scolastiche. In Sicilia, in Abruzzo, nel basso Lazio. Altro che truffe telematiche: è la baguette il nuovo miracolo romeno. Ma non si deve dire. Perché con la globalizzazione, in certe filiere alimentari, l´ufficialità può essere sconveniente. E così come in una favola ancora da scrivere il filone di Dracula – costo: meno della metà di quello italiano; durata: due anni; giro d´affari: 500 milioni – diventa un segreto di Pulcinella.

Tutti lo sanno, ma è più commerciale dissimulare:

«Non abbiamo rilasciato licenze per esportare pane in Italia», dice Grigore Onaciu, capo della direzione agricola di Cluj Napoca. Intrigante la versione dell´associazione panificatori: «Non sappiamo se qualche azienda vende in Italia». Sembrano cadere dalle nuvole anche negli uffici della sanità alimentare: «Autorizzazioni? Boh…». Come mai questa linea d´ombra se poi nei nostri super e ipermercati le derrate di pane romeno precotto vanno alla grande e al Nord un filone su quattro arriva da qui? «Può sembrare insensato, ma troppa pubblicità è negativa», spiega un esportatore che lavora per quattro grandi forni sparsi tra Timisoara, Bucarest e Cluj. Nei periodi di crisi, la concorrenza, leale o sleale, fa più paura. «Gli ipermercati italiani mollerebbero, e calerebbero le ordinazioni. Ci paragonerebbero a una piccola Cina, e invece siamo un Paese comunitario». Più che una commedia degli equivoci pare un gioco delle parti.

E dunque: il viaggio del pane dell´Est conviene raccontarlo al contrario:

Partendo dalla data di scadenza, da quei numeri stampati su confezioni essenziali: contrappasso perfetto del packaging ammiccante dei nostri marchi. Una sola scritta. Impressa dalla grande distribuzione per rassicurare restando sul vago: «Prodotto sfornato e confezionato in questo punto vendita». Mavalà. Prodotto sfornato e confezionato qui, lungo il Danubio, nella gelida Transilvania di cui Cluj è stata capitale (oggi con le sue università e la sua azienda siderurgica è la terza e più evoluta città della Romania). E a Costanza, e a Timisoara dove ormai ci sono più imprese italiane che romene, e nella vecchia zona industriale di Bucarest. Immaginate una filiera unica. Con due linee produttive. Una moderna, tecnologicamente all´avanguardia. Come questo bestione inaugurato tre mesi fa a Campia Turzii, mezz´ora di macchina da Cluj. La Lorraine. Una joint venture belga-romena per un impianto modello costato 14 milioni (5 dall´Unione europea) che viaggia a una velocità oraria di 1250 kg di pane.

Tutto è automatizzato: dall´impasto dei cereali al confezionamento:

Cuociono a 205 gradi, poi una botta a meno 25. I dieci operai sembrano tecnici dei Ris, la pulizia è maniacale. Pensi ai disastri di Ceausescu e invece ti trovi davanti una Cupertino del pane. Dice il viceconsole italiano, Radu Pescaru: «Loro sono un gioiellino. Poi però ci sono anche realtà diverse». Già. A 440 chilometri da Cluj, ecco le banlieues industriali di Bucarest. Nei forni a gestione familiare – ma che immettono merce nei pochissimo snob binari dell´export – filoni e baguette li cuociono replicando o forse ispirando certe abitudini camorristiche napoletane: si utilizza legna di dubbia provenienza, scarti di bare, residui di traslochi e scheletri di fabbriche dismesse (sono migliaia). Persino pneumatici. Le celle frigorifere finiscono il lavoro. Un chilo di pane costa 60-80 centesimi. Massimo, 1 euro.

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