Il capocantiere

Anche gli operai hanno storie da raccontare e qualcosa da insegnare

Eccomi qui davanti a voi. Anche io che non sono che un operaio (certo un capocantiere ma non cambia molto) ho una storia da raccontarvi. Innanzitutto mi presento: sono un capocantiere della tangenziale, uno di quelli che vedete spesso, specie di notte, a limitare le vostre corse folli stringendovi la pista, eliminando i sorpassi proprio quando potreste essere rapidissimi e bucare le gallerie e la strada e tutta la notte per arrivare finalmente a casa. E invece noi siamo lì a tagliare l’erba, a rifare l’asfalto, cambiare le luci o riparare l’ultimo guardrail ammaccato dell’ultimo incidente. Se sono lì di notte il motivo è chiaro: lo stipendio è quel che è e se vuoi farti passare degli sfizi è proprio sugli straordinari che devi puntare. Con quello ho comprato i videogiochi ai miei due figli, un LCD enorme per mia moglie che sta tutta la giornata a pulire e lavare davanti alla tivù. Con gli  straordinari ho intenzione di estinguere l’ultimo debito per poterne accendere uno per le prossime vacanze. E così velocemente passano gli anni.

La storia che vi voglio raccontare però è stata solo un piccolo strappo alla normalità, un episodio che un po’ mi ha fatto pensare. Tutto è cominciato perché sono una persona testarda, pochi principi in testa ma da rispettare ogni giorno: uno di questi è che io sono responsabile del materiale di cantiere e con me nessuno, e dico nessuno, deve far sparire nulla. Se sono stato cattivo con qualcuno, se l’ho licenziato in tronco senza considerare se aveva famiglia a carico, mutui o debiti fino al collo, questo è successo per i furti. E questo ha dato i suoi frutti: nel mio cantiere non si ruba più da tempo e sono gli operai più vecchi che per primi avvisano i nuovi che qui non si sgarra.

Così ero proprio tranquillo una notte quando, finito il lavoro proprio all’approssimarsi dell’alba, mi ero distratto a vedere le luci del nuovo giorno e mi sembrò, raccogliendo i birilli seduto sull’estremità del camioncino che andava a retromarcia, che fossero finiti prima del tempo. Ma il cartello si trovava proprio dove doveva essere e anche nel camioncino non sembrava che mancasse nulla. La sera dopo memorizzai la posizione in cui la deviazione finiva e, all’alba del nuovo giorno, recuperai tutto fino al punto esatto. Soddisfatto di essermi solo sbagliato e di aver risolto con la mia solita pazienza e perseveranza ogni dubbio che affollasse la mia testa, tornai al lavoro di ogni sera senza far caso più ai birilli. Ma dopo qualche giorno di nuovo quella sensazione. La sera dopo presi a segnare con un gesso sull’asfalto il punto di fine e puntualmente trovai i birilli fino a lì. Dopo qualche altro giorno i birilli sembrarono di nuovo venire a mancare. Controllai il segno e questi era esattamente dove doveva essere. Andai più indietro cercando un suo eventuale doppione ma niente da fare: un unico segno, sotto l’ultimo dei birilli. A questo punto, sicuro più che mai di avere a che fare con un ladro o con qualcuno che mi volesse prendere in giro, presi l’abitudine di nascondere dalla parte opposta dell’ultimo birillo una bottiglia di plastica ammaccata, di quelle che si trovano in abbondanza nelle cunette. Come sempre non successe nulla ma un venerdì (a ripensarci meglio era sempre stato di venerdì) la sensazione di vuoto si ripeté e l’indagine (che andò oltre al segno sull’asfalto posto sotto l’ultimo birillo) mise in evidenza che la bottiglia vuota era nella cunetta qualche decina di metri più indietro dell’ultimo birillo: ebbi un sorriso maligno perché avevo scoperto il ladro, per quanto furbo potesse essere, e già pregustavo la soddisfazione di smascherarlo.

Nei giorni seguenti ripetei i normali segnali e poi, giunto il venerdì, decisi di capire cosa ci fosse dietro quella storia. Mi finsi troppo stanco per quella sera e lasciai che un altro caposquadra facesse il turno di notte. Sapevo dove cercare, era pur troppo evidente chi nelle ultime settimane avesse fatto il turno di venerdì. Così, sempre più arrabbiato via via che ripensavo a quello che il ladro stava facendo, decisi di aspettare l’orario per smontare e seguirlo fino a casa. Lo avrei potuto cacciare via subito ma da una parte volevo beccarlo con le mani nella marmellata dall’altra capire che cosa se ne facesse di quegli oggetti così inutili.

Non fu facile seguirlo, abitava in una periferia piuttosto nuova, quella rubata alle campagne e costellata di stradine strette e accidentate e ruderi di altri palazzi, di altri gruppi immobiliari abusivi bloccati troppo presto per essere condonati. Alla fine una casa bassa con un piccolo giardino lo vide arrivare con la sua auto scassata. Io andai dritto e poi, alla prima curva fermai l’auto e mi incamminai. A quell’ora non c’era nessuno e anche da lontano potevo sentire la portiera che si apriva e si chiudeva, il portellone del portabagagli che, colpevolmente, rivelava il furto della sera. A quel punto mi avvicinai per capire quanti erano e, soprattutto, cosa ne faceva. Una decina, non di più, difficili da notare su un gruppo di centinaia. Andò nel giardino e li ripose con cura, come a fare un disegno. Poi entrò in casa e non si sentì rumore.

Mentre aspettavo la rabbia montava sempre più: mi rubava i birilli per farne ornamento nel suo giardino? Ma che deficiente era quello? Pensai di andare lì a bussare per dirgli che lo avevo scoperto comunicandogli subito che era licenziato ma poi decisi di usare con le sue stesse armi: glieli avrei sottratti in silenzio, facendogli sorgere quegli stessi dubbi che mi avevano fatto disperare. Sarebbe tornato a lavoro con una paura crescente che si sarebbe materializzata quando lo avrei punito come meritava. Aspettai mezz’ora, giusto per farlo dormire, e poi, di soppiatto entrai nel cancello per recuperare quelli persi. E lì rimasi sorpreso dal vedere almeno un centinaio di birilli sparsi per il giardino quasi a fare un percorso con curve, rettilinei e dossi artificiali. Stavo osservando il percorso quando sentii dei forti rumori e delle grida. Feci appena a tempo a nascondermi quando un bimbo di 7-8 anni su una sedia a rotelle sbucò dalla porta di casa come un fulmine inseguito dal mio operaio in bicicletta. Cominciarono a correre lungo il percorso fino a che arrivarono alla curva monca appena conclusa.

Restai a bocca aperta: loro ridevano felici e io? Io schiumavo di rabbia nascosto in una siepe. Ma cosa ero diventato? Cosa mi aveva trasformato in una persona sadica e vendicativa? Uno dei miei figli aveva l’età di quel ragazzo e io non mi ricordavo di quando avesse riso così l’ultima volta, non mi ricordavo di quando io ero stato così sereno. Il mio primo impulso fu quello di cancellare quel sorriso da incosciente da quel ladro, di far vedere al figlio chi fosse veramente suo padre. Ma tornai in me e non lo feci dirigendomi verso l’auto per fare l’unica cosa sensata.

Quando uscirono di nuovo restarono a bocca aperta. Il bimbo richiuse la bocca in una risata sonora e subito cominciò a spingere la sua carrozzella sul tracciato finalmente completo Il padre restò lì fermo a guardarmi piazzare l’ultimo birillo. I suoi occhi esprimevano terrore e stanchezza ma io lo salutai con affetto dicendogli a gran voce che mi erano finalmente arrivati i birilli che mi aveva chiesto. Poi, sottovoce gli dissi che era tutto a posto ma che, la prossima volta, sarebbe stato meglio chiedere che rubare. Tornai a casa contento della mia buona azione e convinto che forse qualcosa dovevo cambiare nei miei pochi e saldi principi. Chissà, magari così la prossima risata che si sarebbe sentita sarebbe stata mia, insieme a mio figlio.

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