Non solo Boschi, da Grillo a Berlusconi: ecco chi ha detto «Se perdo lascio la politica»

14/12/2016 di Donato De Sena

«Se perdo, mi ritiro per sempre». Non c’è solo l’ex ministro delle Riforme Maria Elena Boschi tra gli esponenti e i capi di partito che negli ultimi anni hanno disatteso la promessa di lasciare una volta per tutte la politica in caso di sconfitta elettorale. Negli anni scorsi, prima della madrina della riforma costituzionale sonoramente bocciata con il referendum del 4 dicembre, avevano già garantito e poi evitato l’addio dalla scena anche leader come Beppe Grillo e Silvio Berlusconi.

DA BERLUSCONI A GRILLO, CHI HA DETTO «SE PERDO LASCIO LA POLITICA»

«Se gli italiani avranno fiducia, sacrificherà altri cinque anni. Altrimenti andrò in una bellissima barca a Tahiti e ringrazierò la fortuna per avermi assolto da questa responsabilità», disse nel settembre 2005 il leader di Forza Italia, allora presidente del Consiglio, alla platea del Workshop Ambrosetti di Cernobbio. Pochi mesi dopo, nell’aprile 2006, Romano Prodi vincerà le elezioni politiche a capo di un’ampia coalizione di centrosinistra. Berlusconi resterà in campo, alla guida dell’opposizione. Riuscendo a farsi rieleggere alle successiva tornata utile, nell’aprile 2008, contro Walter Veltroni.

Beppe Grillo invece, il suo abbandono della politica in caso di sconfitta, lo annunciò alla vigilia delle Europee 2014, elezioni che il Movimento 5 Stelle perse rovinosamente raccogliendo solo il 21% dei consensi, contro il 41 del Partito Democratico. «Se perdiamo? Me ne torno a casa, dirò: scusate ho sbagliato. Se vinciamo invece mettiamo in Europa delle persone che cambieranno l’Italia», ripeteva in quei giorni il comico genovese davanti alle telecamere. Anche quella volta, però, non arrivò né l’addio né un’ondata di indignazione per la promessa non mantenuta. A riprova che la tradizione del «se non vinco lascio per sempre» è così radicata da riguardare anche i movimenti anti-establishment e non solo i partiti tradizionali.

 

 

Un partito tradizionale era anche Alleanza Nazionale. Il suo leader storico, Gianfranco Fini, nel 2010, dopo aver rotto con il centrodestra berlusconiano e aver fondato Futuro e Libertà, ai tempi in cui era presidente della Camera, fu travolto dalla vicenda della ‘casa di Montecarlo’, un immobile che An aveva ereditato da una contessa e che era poi finito nella disponibilità del cognato di Fini, Giancarlo Tulliani, dopo essere stato venduto ad una società offshore. Fini fu travolto da una violenta campagna di stampa, capeggiata da Libero, Il Giornale e Panorama. ma riuscì a mantenere il suo posto con le unghie e con i denti. «Se dovesse emergere con certezza che Tulliani è il proprietario e che la mia buona fede è stata tradita – disse l’ex leader di An in un videomessaggio diffuso via web – non esiterei a lasciare la presidenza della Camera. Non per personali responsabilità, ma perché la mia etica pubblica me lo imporrebbe». Non c’erano di mezzo elezioni e vittorie o sconfitte, quella volta. Ma l’addio, anche quella volta, non arrivò. Fini mantenne la prestigiosa terza carica dello Stato e continuò a difendersi. «Non ho mai mentito agli italiani, vado avanti a testa alta. […] Non intendo farmi condizionare dalla ciclica comparsa di documenti, più o meno autentici», ripeterà per molto tempo.

Poi, gli ultimi esempi. Il premier Matteo Renzi ha ribadito più volte nel corso della lunga campagna referendaria la volontà di lasciare in caso di vittoria del ‘No’ sia l’esperienza alla guida dell’esecutivo che nel partito. «Se perdo considererò fallita la mia esperienza politica», affermava nella conferenza stampa di fine anno alla Camera il 29 dicembre 2015. Ha ribadito lo stesso anche nei mesi successivi, nel corso di interviste alla radio e in tv. A ruota lo hanno seguito sia compagni di partito che di governo. «Se fallisco la promessa elettorale vado a casa, ho un lavoro fuori dalla politica», diceva ad esempio il deputato Ernesto Carbone, membro della segreteria Pd, il 26 maggio scorso, nel corso del programma di La7 ‘L’aria che tira’. «Se le riforme non si fanno – affermava invece tre giorni dopo il ministro dei Beni Culturali Dario Franceschini in un’intervista a Repubblica – chiude bottega il governo e chiude anche la legislatura, mi pare ovvio». E a pochi giorni dal voto, la vicepresidente del Senato Valeria Fedeli, nuovo ministro dell’Istruzione nel governo Gentiloni, ancora a ‘Laria che tira’ garantiva: «Se il giorno dopo ha vinto il ‘No’ non possiamo andare avanti, non avremmo l’autorevolezza, sarebbe giusto rimettere il mandato. Tolgo l’alibi a chi pensa che resteremo lì fino al 2018». Le botteghe però sono ancora aperte. Tutte. Come sempre. Nel rispetto della tradizione italica.

(Foto di copertina: ANSA / LUCA ZENNARO)

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