Gli ultimi saranno ultimi: il capolavoro di Max Bruno

GLI ULTIMI SARANNO ULTIMI, LA TRAMA –

Una pistola. Una donna in lacrime. Uno sparo. Ma anche un bambino che corre in una campagna innocua, in bicicletta. E alza un tubo di Neon. Una citazione di Guerre Stellari o forse, chissà, uno dei tanti fenomeni fin troppo normali se inquini una zona con le tue onde radio. Divine, forse, ma letali. Inizia così Gli ultimi saranno ultimi, nelle sale italiane dal 12 novembre. C’è tanto, c’è tutto nel quarto lungometraggio da regista di Massimiliano Bruno. C’è l’Italia precaria e la sua generazione fantasma è dimenticata, c’è una periferia che sopravvive alla crisi ma non ai tumori che tutti sanno da dove vengono ma nessuno può dirlo. C’è Zanzotto, poliziotto fragile, simbolo di uno stato inadeguato. Ma soprattutto c’è Luciana, Colacci Luciana. Figlia di un padre di sinistra e ribelle, perdente che tutti ricordano con affetto (ma che di sicuro nessuno ha aiutato in vita), moglie di un cialtrone. Ma felice. Perché la sua esistenza fatta di pochi soldi e amicizie preziose e semplici, sta per avere una svolta, la più bella. Ma questo è un mondo infame e quella gioia si trasformerà in un gorgo kafkiano di dolori e ingiustizie.

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GLI ULTIMI SARANNO ULTIMI, IL TRAILER

Sì, siamo volutamente vaghi sulla trama. Perché de Gli ultimi saranno ultimi non dovreste vedere forse neanche il trailer. Perché parte della sorpresa della bellezza e della visione di quest’opera sarà nel piombare in quel paesino, in quella comunità. Magari pranzare con loro in riva al mare, con la carbonara di pesce, perché Groupon scontato aveva solo quel posto bizzarro. Ma va bene lo stesso.

GLI ULTIMI SARANNO ULTIMI, IL REGISTA MAX BRUNO –

Il regista di questo lungometraggio la sua generazione, la mia, la vostra, la racconta da tanto tempo. Da quando ancora ci illudevamo di potercela fare. Dieci anni fa e pure quasi venti. Con il monologo teatrale che ha lo stesso titolo del film, ma anche con Zero, forse persino più bello (ma è una bella lotta). Massimiliano Bruno è antiideologico – e ce l’ha dimostrato nell’ottimo Viva l’Italia – ma non ha paura di essere politico. Senza tesi preconfezionate, con la vita. E Paola Cortellesi è bravissima a incarnare questa donna che non è eroica, che anzi ama nascondersi in momenti di trascurabile felicità, come un concerto al centro commerciale o un’uscita con gli amici.

GLI ULTIMI SARANNO ULTIMI, LA RECENSIONE –

Luciana siamo noi, quando sorridiamo a una vita grottesca, a padroni cinici che con le nostre vite giocano a dadi. È lo specchio di una generazione che cade sempre una volta di più di quelle in cui si rialza. Ma non rinuncia mai a farlo. E non fa la vittima, vive: perché ci hanno cresciuti dicendo che noi eravamo i più fortunati.
Non era vero, nessuno, dopo la rivoluzione industriale, ha vissuto la nostra involuzione sociale. E poi come fai a fare la vittima se non hai neanche la dignità di una tragedia sociale, ma solo un tragicomico piano inclinato sociale che ti riporta sempre in fondo?
Luciana aiuta chi la condannerà, perché lei al gioco al massacro, al tradimento dei suoi simili, non ci sta: ma tutti gli altri sì. Perché ci hanno insegnato che l’unione non fa la forza, che l’individualismo era il segreto del successo.
Non era vero neanche quello.

Paola Cortellesi non è mai stata così bella, perché incarna una normalità dolcissima, struggente, infine negata. E Bentivoglio si ritrova tra le mani uno dei suoi ruoli più belli, che affronta con il suo immenso talento e un’umile sobrietà, sopportando e fotografando le meschinità dei piccoli uomini. E anche quelli siamo noi, non nascondiamoci. Perché quando ci hanno massacrati di botte, 14 anni fa, abbiamo avuto paura. E abbiamo smesso di lottare.

Bruno sa metterci tutto in questo film, sintesi e apice della sua produzione. Matura stilisticamente – oppure, semplicemente, qui può fare ciò che prima non gli era permesso -, con movimenti di macchina essenziali e mai banali, con una ripresa basculante, inquieta, che ci dà una sensazione di precarietà quasi fisica. Non sbaglia un attore – vorremmo elencarli tutti, perché sono straordinari quanto ingiustamente poco conosciuti (o, come Ilaria Spada, più famosi ma sorprendenti per capacità finora nascoste) – e si affida a una scrittura perfetta, a una sceneggiatura blindata, che sa cambiare almeno tre registri e tenere alla grande, fino a quel finale che ti schiaffeggia. E fa male.

Dovrebbe vincere premi, questo film, e tanti. Ma il timore è che nel migliore dei casi si venga abbagliati dagli ottimi interpreti e nel peggiore non si intuisca la grandezza dell’opera, il capolavoro di questo regista, perché schiavi dei pregiudizi. Sulla commedia, sulla sua capacità di farti ridere in altre occasioni come qui di strapazzarti il cuore, su una generazione, quella di Luciana, che nessuno sa raccontare e che tutti preferiscono ignorare. E anche su un linguaggio cinematografico che guarda più a Loach che alla commedia all’italiana, anche se ne ha lo spirito e il coraggio.

Speriamo di sbagliarci. Intanto voi premiate questo film. Affollate le sale, ma soprattutto parlatene. Perché siamo così abituati ad essere bastonati che, come Luciana, non ce ne accorgiamo più. O, come Stefano Fresi (bravissimo e intelligente a capire le potenzialità di un ruolo piccolo solo nelle pose, ma grande nell’economia della storia), qui sia vigliacco che coraggioso, che pensa che tutto si può sistemare.

No, non è così. Aveva ragione Mario. Chi è Mario? Andatelo a scoprire in sala.

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