Referendum: D’Alema “Italicum come riforma Berlusconi”. Giachetti “Cambiamo dopo 30 anni di chiacchiere”

17/09/2016 di Boris Sollazzo

D’ALEMA GIACHETTI –

Intanto, rassegnatevi: non ci sono più le feste dell’Unità di una volta. Menù “cafone” a 10 euro, birra a 3 euro e mezzo. Ok che la rivoluzione proletaria è lontana e che Confindustria è vicina, ma i militanti vampirizzati anche no. Soprattutto sotto una pioggia scrosciante, che si interrompe nell’esatto momento in cui Massimo D’Alema si siede (e voi che lo sottovalutate). Il commissario e presidente Orfini c’è, si tiene a distanza, sorride la prima volta a metà dibattito. Nello stesso secondo in cui Carlos Bacca segna a Genova.

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Che dirvi del confronto tra Roberto Giachetti e Massimo D’Alema? Li avete visti tutti su La7: così in forma e caricati a pallettoni da zittire o quasi Chicco Mentana, impresa non facile. E anche a fine dibattito mentre esausti continuavano a mettere a segno stoccate – sempre più sotto la cintura e gastronomiche, tra patti della crostata ed “era meglio che mangiavi la porchetta” sullo sciopero della fame giachettiano – non hanno mollato il colpo.

Massimo D’Alema e Roberto Giachetti sanno come parlare al loro popolo. Così divisi e così diversi, ma capaci anche di prendersi il palco. Doveva essere un dibattito sul referendum, quella alla Festa dell’Unità di Roma, nel quartiere popolare di Pietralata, è stato alla fine lo scontro tra due anime di un partito lacerato ma che cerca, pretende, rimpiange un terreno comune.

Se si dovesse stabilire un vincitore tra un Giachetti ottimo nei contrattacchi all’inizio – e a tratti perfido (“è la prima volta che mi invitano a parlare di riforma elettorale a una festa dell’Unità”, “caro Massimo riconosco che sei STATO un grande leader del centrosinistra”) e un D’Alema che esce alla distanza, noi voteremmo il popolo democratico. Almeno 400 persone, sotto una bomba d’acqua e un gazebo che, al massimo, ne copre, e maluccio, la metà. Appassionato – fin troppo, visti un paio di intemperanze da stadio – e spesso insoddisfatto per la deriva personalistica di molti batti e ribatti tra i due, desideroso di un dibattito più accurato, analitico, politico.
Certo, ci sono i tifosi. Curiosamente non di rado gli applausi per Bobo arrivano da sinistra e per Massimo da destra della platea (ma dal palco per loro è il contrario, ovviamente). Non mancano i “buuu”, i “buffone”, soprattutto quando uno dei due si permette una battuta o un colpo basso di troppo. Quasi che invece che arena, chi ascoltasse forse quasi arbitro. E durante la pubblicità c’è il meglio: dalla battuta imbeccata da Mentana sul fatto “che a me e Bobo ci uniscono solo due cose la Roma e l’iscrizione al Pd, ma temo che la debolezza in difesa di entrambe le realtà ci porterà ai medesimi risultati” allo scontro sulle elezioni di entrambi con il Porcellum, con Giachetti che di fronte al D’Alema che dice “sono stato eletto una volta sola con questo sistema e me ne sono andato!” è sbottato in un “ma questo deve andare in diretta!”. In mezzo un iscritto che chiede a D’Alema di portare il dibattito in congresso, perché, appunto, la vitalità del popolo democratico è sorprendente visto che il combinato disposto di Mafia Capitale, commissariamento e rapporto Barca aveva, secondo molti, tagliato le gambe al dibattito politico interno e alla costruzione di una base attiva. Forse, invece, tagliando i rami secchi e intervenendo sulle storture di sezioni e amministrazioni municipali, su militanti solo sulla carta e sezioni che erano solo tesorerie, con l’impegno di chi la vita di partito l’ha fatta e la conosce, sono diminuiti i numeri, ma non la qualità.

C’è da dire che il sospetto che Roberto Giachetti e Massimo D’Alema cavalchino purosangue non loro, c’è. Bobo nel difendere Renzi, Boschi e l’Italicum è efficace, agguerrito – si sente, nella sua aggressività la voglia di mettere all’angolo il campione e non permettergli i suoi ganci furbi – ma anche non del tutto a suo agio. Non a caso rivendica, con convinzione, i “30 anni di chiacchiere” di chi ora si schiera per il “no”, di come abbiano chiesto uninominale e preferenze a seconda delle stagioni e dei nemici, delle tante riforme mai fatte dai fautori del no quando avevano la maggioranza. Ma il suo è anche un richiamo al menopeggismo – “non butto una riforma perché il senato non è come piace a me, con sindaci e presidenti di regione” – rimandando al post referendum la battaglia contro le preferenze. Dall’altra parte fa sorridere Massimo D’Alema che cita Onìda (e passi) e Quagliariello – dei quali mostra il libro, ma il secondo non lo nomina – per puntare il dito contro il “pasticcetto”, come ha chiamato Italicum e riforma costituzionale. E indigna anche un po’ quando sostiene che questa riforma è più simile a quella di Berlusconi che a quella del programma dell’Ulivo del 2005. E si becca un bel “corbellerie” da Bobo. E’ un dibattito generazionale, di posizionamento strategico, condizionato da Matteo Renzi che con la personalizzazione del referendum ha evidentemente dopato il confronto, da entrambe le parti.

Giachetti è un pragmatico della democrazia  – “finalmente abbiamo fatto delle riforme necessarie, ora tocca ai cittadini decidere”, D’Alema un teorico. E così seppure per condannare la genesi di queste riforme ricorda che il Parlamento che le ha decise non ha l’investitura popolare ed i suoi eletti sono frutto di una legge incostituzionale  – “ci vorrebbe autocontrollo e prudenza” -, seppure dica “che la democrazia è rappresentanza e partecipazione, non solo governabilità”, poi finisce per non fidarsi né delle leggi che hanno permesso all’Italicum quest’iter, né del Parlamento e diffida anche del referendum, perché di fatto contesta che il tema sia arrivato fino al popolo. Uno parla di una necessità di cambiare, l’altro di metodo.

E alla fine te ne vai, affascinato da qualcosa che pensavi si fosse perduto, annegato nel talk show e che invece non soffoca neanche nell’acqua di Pietralata: la voglia di fare e sentire politica, di partecipare. Ma anche inquietato da un partito profondamente lacerato. In cui il dibattito è diventato scontro. Per colpa forse di leader a volte troppo deboli, altri troppo avanti, altri ancora troppo forti, quasi sempre attaccatti alla conservazione, al benaltrismo, a un gattopardismo poco riformista. Colonnelli sempre pronti al golpe. E anche nel confronto condotto da Enrico Mentana senti che l’unica formazione davvero democratica è il PD (non c’è il verticismo né “l’epurazionismo” di un M5S, né la dittatura forzista o il populismo salviniano, ma un costante dibattito), ma che questa caratteristica, in mano a classi dirigenti ostinate e contrarie, diventi l’autolesionistico strumento di autodistruzione. Minoranza e maggioranza sono sicure di essere così diverse? O tra battute sarcastiche dei loro leader e confronti fin troppo muscolari, alla fine cercano risultati diversi con moduli simili?

La risposta vera, forse, va affidata al popolo. Non solo al referendum.

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