Il naufragio dell’Europa

22/02/2016 di Andrea Mollica

Dallo scoppio della crisi economica, iniziata nel 2007 negli Usa e diffusasi al resto del mondo a fine 2008, sono ormai passati quasi dieci anni. In questo lasso temporale l’Europa è diventato sinonimo di crisi: prima la pesante recessione, poi la crisi del debito sovrano che ha messo in discussione la moneta unica, infine la crisi dei migranti. Gli Stati che hanno creato una delle esperienze di maggior successo della storia – 70 anni senza guerre e caratterizzate da diffusione di libertà, democrazia e benessere – hanno iniziato a indicare l’Europa come capro espiatorio dei propri problemi. I burocrati di Bruxelles, che applicano norme e regole scritte dai Governi nazionali e dai parlamentari eletti dai cittadini, sono diventati il simbolo della lunga crisi dell’unificazione europea, iniziata nel 2005 con la bocciatura dei referendum sulla nuova Costituzione e poi diventata drammatica con la doppia recessione. L’entusiasmo per la caduta dei confini o per un’unica moneta con cui fare acquisti in diversi Paesi si è ormai dissolto da tempo, e al suo posto sono subentrati sentimenti di sfiducia e disapprovazione colpevolmente aumentati dalle classi dirigenti statali. Criticare l’Unione europea è ormai diventato un espediente a cui ricorrere per recuperare consensi in opinioni pubbliche sempre più incerte e insoddisfatte. Dal teatro in cui si sono trasformati i Consigli europei, dove ogni leader deve autointestarsi una vittoria, alle reprimende quotidiane sui media, da ormai diverso tempo non esistono più capi di stato o di governo definibili come europeisti.

Il percorso di unificazione, il progetto politico dell’UE come recita l’articolo 1 dei Trattati, sembra ormai esser stato cancellato dal presente così come del futuro: gli Stati Uniti d’Europa sono un bellissimo slogan, che però non ispira l’azione di nessun leader dell’UE. Lo dimostra anche l’enfasi davvero eccessiva con cui è stato salutato l’accordo sul referendum chiesto da David Cameron ai Paesi europei per far rimanere il Regno Unito nell’UE ed evitare la Brexit. L’intesa certifica lo scoraggiamento con cui i leader europei guardano al suo processo di unificazione, tanto da mettere in discussione perfino l’articolo 1, che postula come l’Unione europea sia un progetto politico per l’unificazione sempre più stretta tra i popoli europei. David Cameron ha ottenuto l’ennesima clausola di salvaguardia, al fine di escludere la Gran Bretagna dallo stesso obiettivo dell’UE. Il cedimento su questo punto renderà quasi ininfluente lo stesso esito del referendum: se vinceranno i sì il Regno Unito rimarrà completamente esterno a ogni eventuale integrazione futura dell’Europa. Se vinceranno i no invece l’UE e il Regno Unito saranno costretti a firmare accordi bilaterali per mantenere immutati o quasi i loro rapporti di collaborazione. L’unico aspetto certo è come l’UE abbia creato un pericolosissimo precedente, mettendo in discussione persino il suo pilastro fondante per mantenere al suo interno uno dei tanti nazionalismi che ne hanno minato il progetto politico. Considerando l’incapacità dimostrata nella gestione delle sue crisi più gravi, con le ricette solidali tra Stati continuamente rifiutate per perseguire i propri interessi nazionali, l’addio all’unificazione sempre più stretta tra i popoli europei appare ormai un retaggio del passato più che un progetto per il futuro.

Photo credit: Dan Kitwood/Getty Images

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