Enrico Letta: a Palazzo Chigi fui troppo prudente e ingenuo. Ma rivendico Mare Nostrum

«Non voglio ricascare in un banale battibecco con Renzi», dice Enrico Letta, che Marco Cicala è andato ad intervistare a Parigi per la cover story del venerdì di Repubblica, provando subito a sgombrare il campo dalle eventuali polemiche con la politica italiana successiva alla staffetta fra lui e Matteo Renzi a Palazzo Chigi: una frizione personale e politica mai archiviata, quella fra l’ex vicesegretario della gestione di Pierluigi Bersani, chiamato alla responsabilità di governo da Giorgio Napolitano, e il vincitore delle primarie del 2013.

ENRICO LETTA

Dopo l’uscita dal governo, Enrico Letta è rimasto per un periodo in Parlamento, salvo poi approdare alla direzione degli studi di Affari Internazionali, parte della facoltà di Scienze Politiche di Parigi, colloquialmente detta Sciences Po. Ora vive in zona di Place de l’Etoile e, scrive il Venerdì, «si divide tra due oneri: le lezioni all’università e la direzione della Scuola di affari internazionali, cioè un posto dove si organizzano master e si discute di cose molto importanti e gravose».

Oltre mille, mille e trecento studenti: «Americani, tedeschi, italiani». Sono la «generazione Bataclan», i ragazzi che dopo gli attentati di Parigi del 14 novembre è stato necessario «convincere» a rimanere a scuola: per la verità, racconta Letta, anche i professori avevano molta paura.

 Ai ragazzi che insegna?
«Due idee funzionano per me da guida, da Stella polare e Croce del Sud…».

Comincerei dalla Stella.
«Il rapporto fra teoria e pratica. Negli scenari internazionali di oggi basarsi su conoscenze solo teoriche non serve più. Per questo lavoriamo molto sulle simulazioni di situazioni concrete».

Mentre la Croce del Sud?
«La condizione di crisi. La mia generazione è cresciuta secondo un modello educativo che era: studi e ti prepari per gestire la normalità. Poi ogni tanto arriva una crisi che interrompe la normalità ma senza rimettere in discussione i modelli formativi. Ormai quello schema è saltato. Oggi passiamo di crisi in crisi. Perciò devi essere pronto all’adattamento. Questa è una delle cose che mi rende ottimista su noi italiani. Certi studi mostrano che su tanti aspetti siamo messi male, ma non sul crisis management. Nelle fasi critiche sappiamo cavarcela».

L’arte di arrangiarsi. Oddio, ancora?
«Sì, ma guardi che non è folklore».

 

La politica, dice Enrico Letta, va insegnata: sopratutto nell’era della rete, di Internet e delle informazioni libere, in cui la politica perde “naturalmente” di autorevolezza perché non è più l’unica produttrice di notizie attendibili. Quindi ai suoi studenti, dice Letta, è da insegnare sopratutto la capacità di orientarsi fra fonti, notizie, informazioni; e, per contro, l’idea dell’ex premier è che anche la politica debba imparare che il cittadino di oggi vede la politica come un servizio, e che l’era delle “carriere quarantennali” in politica è finita.

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Detto da lei che in 49 anni è stato ministro, sottosegretario, Presidente del consiglio, può suonare come un’autocritica.

«Dimettendomi dal Parlamento ho voluto dare un messaggio in questo senso».

Ma adesso che ha fatto il Cincinnato la accusano di aver abbandonato l’Italia, la lotta.
«Se è per questo, sul web mi accusano pure di continuare a prendere lo stipendio da deputato. Non lo prendo più. Quanto all’Italia, non l’ho abbandonata. Torno a Roma ogni mese per dedicarmi all’Arai, la scuola di politiche che abbiamo creato con Emma Bonino e Pascal Lamy. Corsi gratuiti per cento ragazzi tra i 19 e i 25 anni, selezionati in tutto il Paese e dai percorsi di studio diversi».

Ironizzando sulla sua Second life parigina, Giuliano Ferrara ha scritto: Prendere Enrico Letta come professore di politica nella fatidica scuola di Sciences Po è uno scherzo, un gioco di società, una ostentazione di apparenza.  
«A Ferrara non gli puoi toccare Craxi, Berlusconi e Renzi. Per lui sono la reincarnazione di Dio . Non ha tollerato che io mi sia ribellato a Berlusconi quando voleva far cadere il mio governo e che non mi sia inchinato di fronte a Renzi».

Quella di Premier è stata l’esperienza da cui ha imparato di più?
«No, sul piano del bagaglio, quella di sottosegretario alla presidenza è stata più istruttiva. A Palazzo Chigi sei sulle montagne russe, non riesci nemmeno a capire quello che sta succedendo. Da sottosegretario invece tratti con tutti i pezzi del sistema, e puoi capire moltissimo sul funzionamento del potere».

 

Il momento dei bilanci è quello in cui Letta racconta quali siano le riforme e le azioni di governo di cui va più fiero, e i lati in cui sente di essere stato meno forte: la domanda, chiaramente, è quella sulla sua capacità di comunicarsi e di presentare con efficacia la sua azione di governo al grande pubblico.

Tra le cose che ha fatto da Premier qual è quella di cui va più fiero?
«Mare nostrum, l’operazione per i migranti. Ormai ha ricevuto tanti apprezzamenti, compreso quello dell’Alto Commissariato Onu. Ma scatenò un sacco di attacchi e bugie. Dissero che funzionava da richiamo, che attirava gli sbarchi. Invece, oltre a quello del mare, siamo arrivati anche al controllo degli scafisti».

E le cose che si rimprovera di più dei mesi a Palazzo Chigi?
«Troppa ingenuità».
Enrico il sereno. Ma l’ingenuità non è per forza un difetto.
«In politica lo è».

Altri errori?
«Troppa prudenza nelle riforme».

E sul versante dell’immagine?
«Certo, sono ancora percepito come un freddo. Ma penso di essere cambiato. Ora ho più voglia di rischio».

La politica è anche faccenda di passioni, personalità, epica.
«Assolutamente. L’epos conta. Come conta il carattere nazionale. A noi italiani c’ha rovinato Gianni Rivera».

Poveraccio, e perché?
«È il mio idolo. Quel gol in extremis a Città del Messico contro la Germania è uno dei tre o quattro fatti epici dell’Italia repubblicana, ma c’ha rovinato. Ci ha dato l’idea che alla fine noi ce la caviamo sempre, quindi tanto vale non organizzarsi prima. Però oggi se non unisci genialità e programmazione non ce la fai».

In fatto di comunicazione, lei ha eccepito parecchio sullo storytel-ling politico, la narrazione più o meno affabulata dell’operato di governo.
«Sì, ma qui non voglio ricascare in un banale battibecco con Renzi».

 

 

Chiaramente a Sciences Po di Parigi la riflessione sull’identità e la costruzione europea la fa da padrone fra i colloqui degli studenti, le lezioni, le riflessioni dei docenti.

Stamattina ha fatto una lezione su grandezza e limiti dell’Europarlamento. Ma oggi l’Europa appassiona gli studenti o li lascia freddini?
«Chi ha vent’anni è interessato, chi ne ha trenta, già meno».

Che deve inventarsi un prof per rendergliela un minimo sexy?
«Per esempio ricordare che senza l’Europa non ci sarebbero l’Erasmus o le compagnie low cost con cui loro si spostano. E poi agli studenti ripeto sempre: Pensate davvero che i problemi con cui ci scontriamo oggi possano ancora trovare soluzioni esclusivamente nazionali?».

Ultimamente tra governo italiano e Ue non sono stati giorni idilliaci.
«Ci siamo messi dentro una dinamica europea piuttosto faticosa. L’Europa dev’essere cambiata, riformata, completata. Ma non va presa come capro espiatorio per ragioni di politica domestica».

 All’estero i politici italiani non hanno generalmente di un’immagine mozzafiato. Domina sempre il cliché?
«Conoscono poco la nostra politica. Alla Scuola abbiamo invitato Schwarzenegger per farci raccontare l’esperienza da governatore ecologista della California. A cena, mi ha citato un solo nome di politico italiano: Berlusconi».

 

A proposito di Berlusconi, Enrico Letta, milanista, va ogni tanto a vedere il PSG di Zlatan Ibrahimovic: «La cosa che non perdono a Berlusconi è di averci illuso sul reingaggio di Ibra», dice l’ex premier.

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