Così le aziende fanno firmare le dimissioni in bianco ai lavoratori

Una delle pratiche più odiose dell’imprenditoria italiana

Un’inchiesta di Repubblica oggi ci racconta una delle pratiche più odiose del magico mondo dell’imprenditoria italiana: la pratica barbara e incivile di far firmare ai neoassunti una lettera di dimissioni per potersi così sbarazzare del lavoratore in caso di necessità. L’articolo di Maria Novella De Luca:

Ricorda Fabrizio B., meccanico specializzato di 34 anni, oggi a contratto in una grande acciaieria umbra: «Con un´unica penna ho firmato la mia assunzione e le mie dimissioni, la speranza e la condanna, sapevo che era un ricatto, sapevo che era illegale, ma avevo due figlie piccole, un mutuo, e il bisogno, disperato, di uno stipendio. Era il 2003: cinque anni dopo, quando mi sono opposto a turni di lavoro disumani, il mio principale dopo mesi di mobbing ha tirato fuori la lettera e ci ha messo la data. Sono stato cacciato, ma in realtà risultavo “dimesso”. E dunque senza possibilità di oppormi, di avere né disoccupazione né altro… Ho impiegato anni per riprendermi, il mio matrimonio è fallito, ho rischiato di perdere la casa. E oggi ancora ne porto i segni».

Un fenomeno che rappresenta, secondo i dati delle Acli, il 10% delle controversie di lavoro. E rimane nell’80% dei casi un reato impunito:

Ma che cosa è questa prassi illegale che coinvolge il 60% delle lavoratrici donne e il 40% dei lavoratori maschi, la manodopera operaia, tessile e artigiana, ma si estende anche, e con una percentuale del 25%, al personale impiegatizio di piccole e medie aziende? Come si fa a ricattare così un lavoratore, ma soprattutto una lavoratrice (le donne spesso vengono “dimissionate” non appena tornano dalla maternità) con una distorsione delle regole tanto evidente che il ministro del Lavoro Fornero, su pressione di diversi gruppi di donne, ha annunciato a breve un provvedimento per rendere impossibili le dimissioni in bianco? La promessa e l´inganno «In pratica – spiega Pasquale De Dilectis, direttore provinciale del patronato Acli di Napoli – al momento dell´assunzione le aziende fanno firmare al lavoratore un foglio completamente in bianco, o magari una pagina già compilata ma senza una data, in cui il neo dipendente presenta le proprie dimissioni. Questa lettera viene custodita dal titolare che così può decidere, in ogni momento, di mandare via quell´operaio senza doverlo licenziare, e dunque mettendosi al riparo da cause e contenziosi…».

Perché è difficilissimo, una volta firmata una lettera autografa, dimostrare che si è stati costretti a quel gesto:

Si può essere “dimissionati” per decine di pretesti, ma i motivi più frequenti sono la nascita di un figlio, una malattia, l´età, i rapporti con il sindacato. O semplicemente, anzi cinicamente, raccontano ancora alle Acli, «per lo scadere dei benefici della legge 407 del 1990, che permette ai datori di lavoro che assumono a tempo indeterminato di non pagare per 3 anni i contributi al neo-dipendente che viene coperto direttamente dall´Inps». Passati quei mille giorni la lettera salta fuori e il lavoratore diventa carta straccia, avanti il prossimo per poter “rubare” i benefici di legge. Cacciate dopo la maternità Ottocentomila donne nate dopo il 1973 hanno raccontato all´Istat di essere state licenziate o costrette a dimettersi dopo la maternità. In quel momento strategico in cui, compiuto l´anno del bambino, le donne non sono più protette dalla legge 1204 del 30 dicembre 1971, sulla “Tutela delle lavoratrici madri”, e dunque le aziende sanno che sia le “dimissioni in bianco” sia i licenziamenti diventano meno attaccabili e sanzionabili.

E poi arriva un altro acconto:

«Se penso che in azienda l´abito da sposa me lo sono cucito e ricamato da sola, seta Mikado e fiori di madreperla, e poi la titolare lo ha messo in collezione, ancora mi viene da piangere». Sì, perché Adele Ferri, che oggi ha 30 anni, in quella piccola ditta di alta sartoria nota in tutta la Puglia, aveva cominciato a lavorare a 15 anni, «come succede da noi, a Barletta, mia nonna diceva che avevo le mani d´oro, mi hanno preso come lavorante, nemmeno il corso ho fatto tanto ero brava, ma un contratto vero, anche se a termine, me l´hanno fatto soltanto a 18 anni». Corre veloce Adele, sacrifica alla “ditta” amici, vacanze e domeniche, ma lo fa con passione, perché, racconta oggi nello studio del suo avvocato, «sapevo che mi stavo creando un futuro, un posto di lavoro, intorno a me c´erano soltanto tanti giovani disoccupati, mi sentivo quasi fortunata». Accade però che a 22 anni Adele si fidanza, e la titolare a sorpresa la convoca. «Mi disse che voleva farmi un regalo, ora che stavo per formarmi una famiglia, io che per lei, così ripeteva, ero come una figlia: un contratto a tempo indeterminato, ma che dovevo anche firmare una lettera in cui mi dimettevo, ma soltanto così, per sicurezza, l´avevano già fatto tutte le altre, e figuriamoci se si sarebbe mai privata di una come me. Accettai, delusa, ma ancora mi fidavo». A 23 anni Adele si sposa, a 25 resta incinta. «Ho lavorato fino all´ottavo mese, quasi non riuscivo più nemmeno a piegarmi per provare i vestiti alle clienti, ero già in maternità e ancora mi chiamavano». Nasce Alex, e Adele cambia. Prende l´aspettativa. Torna in ditta ma non ce la fa più. Chiede di non fare gli straordinari, esige che il contratto di lavoro venga rispettato, chiama il sindacato. «Era febbraio, erano i giorni di Carnevale, e la titolare tirò fuori quella lettera: da domani tu vai a casa, non ti riconosco più, non voglio guai qui… Nove anni sepolti in un attimo e oltretutto con la mia firma… Ho avuto la depressione, ma poi sono riuscita a risollevarmi e sto iniziando una causa, nell´attesa di aprire un atelier tutto mio».

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