Cosa significa essere vittima di una bufala, raccontato da un (illustre) superstite

I social network svolgono oggi il ruolo che un tempo era appartenuto alla piazza. Facebook, Twitter, Instagram e WhatsApp (assimilabile ormai ai tre precedenti) rappresentano il media principale attraverso cui la gente riceve e condivide notizie, idee e opinioni. La principale differenza rispetto al passato è che se un tempo quattro cretini avessero ideato e fatto circolare una notizia palesemente falsa, sarebbero stati solo quattro cretini. Oggi sono “Il popolo del web”, seguito e tristemente condiviso dal fantomatico “Paese reale”. Ma come si alimenta una bufala?

Uno studio molto accurato, che peraltro si deve a sei italiani, analizza i post pubblicati tra il 2010 e il 2014, dimostrando che le persone condividono informazioni per confermare i propri pregiudizi, senza prestare troppa attenzione alla loro veridicità. “Diversi meccanismi generano false informazioni, che a loro volta producono false credenze che una volta accolte dagli individui sono altamente resistenti alla correzione”

FAREED ZAKARIA

Fareed Zakaria è un giornalista nato a Bombay ma naturalizzato americano, specializzato in politica ed economia internazionale. La rivista Esquire lo ha definito come «il consigliere più influente di politica estera della sua generazione» e come «una delle 21 persone più importanti del ventunesimo secolo». I creduloni del web non lo hanno risparmiato. Tutto è cominciato quando un sito web non meglio identificato ha pubblicato un post dal titolo: “Fareed Zakaria della CNN chiama alla jihad per lo stupro delle donne bianche”, millantando come la “chiamata alle armi” fosse apparsa su un “blog privato” del giornalista. Il post continuava dicendo che Zakaria avrebbe twittato “Ogni volta che un bianco muore mi si riempiono gli occhi di lacrime di gioia”. «Disgustoso – racconta – al punto che la bufala avrebbe dovuto collassare sotto il peso della sua inconsistenza, giusto? Sbagliato».

Centinaia di persone hanno iniziato a linakarlo, twittarlo e ritwittarlo, aggiungendo commenti troppo volgari e razzisti per essere ripetuti. Alcuni siti web di estrema destra hanno riportato la storia come se fosse vera e, ad ogni nuovo ciclo, i livelli di isteria si alzavano. La gente ha iniziato a chiedere che io venissi licenziato, deportato o ucciso. Per svariati giorni, le intimidazioni digitali sconfinarono dal mondo reale. Alcune persone mi hanno chiamato a casa in tarda notte svegliandomi e minacciando le mie figlie di 7 e 12 anni.

Sarebbe bastato appena un minuto per fare click sul link e rendersi conto che il post originale era comparso su un sito di notizie false, un giornale palesemente satirico (il nostro Lercio ndr). Ci sarebbe voluto solo buon senso per rendersi conto dell’assurdità di tutta la questione. Ma nulla di tutto ciò sembrava importare. Chi condivideva questa storia non era interessato ai fatti, tutto ciò che desiderava era alimentare il proprio pregiudizio. La storia originale era scritta abilmente, in modo da fornire ai teorici della cospirazione munizioni sufficienti per ignorare l’evidenza. Nel pezzo c’era scritto che avevo rimosso il post dopo essermi reso conto di aver attirato attenzioni negative. Così, quando il debunker di turno ha provato a far notare che non vi fossero prove da nessuna parte non è servito a nulla.
Io amo i social media. Ma in qualche modo dobbiamo aiutare le persone a creare un meccanismo migliore per distinguere tra realtà e finzione. Non importa quanto siano impulsive, non importa se twittino o ritwittino un troll, non importa quanto diventino virali, una bugia resta una bugia

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