Calciopoli, De Santis: «Dieci anni per condannare solo me. Oggi è anche peggio»

25/03/2015 di Giordano Giusti

Unico condannato dalla Cassazione nel processo Calciopoli, Massimo De Santis si è dato un’unica spiegazione: «Per far stare in piedi l’associazione a delinquere di Moggi & co. gli mancava quello che si definisce “il partecipe”. E quello ero io». Arbitro di Serie A dal 1995 al 2006 e internazionale dal 2000, ha volutamente rinunciato alla prescrizione e i giudici della Terza sezione penale hanno così confermato la sentenza della Corte d’Appello: 10 mesi e pena sospesa. Il fischietto passato alla storia recente del calcio italiano per il discusso gol annullato a Cannavaro in Juventus-Parma del 7 maggio 2000 per “fallo di confusione” non si dà per vinto e commenta la condanna in un’intervista a Repubblica firmata da Marco Mensurati: «Tutto questo casino, dieci anni di indagini e processi, per condannare Massimo De Santis. È una bella soddisfazione!».

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UNO PER TUTTI – All’apertura del processo iniziato nell’autunno 2008 c’erano parecchi colleghi: Rocchi, Dondarini, Pieri, Bertini, Dattilo, Cassarà, Gabriele, Messina. Tutti assolti. Oggi è rimasto solo De Santis: se il calcio aveva qualcosa che non andava non erano gli arbitri, confessa:

Guardi cosa è successo dopo. È ricominciato tutto. Alla Roma hanno rubato uno scudetto, il gol di Muntari era due metri dentro, hanno messo gli arbitri di porta che non vedono gol che si vedrebbero pure dalla tangenziale. Ma anche cose più gravi, c’è Conte che viene coperto dalla Federazione e fa il ct, Gillet che si vende le partite e gioca come se niente fosse, Mauri che viene arrestato e fa il titolare.

La tesi difensiva è nota: nessuna sim svizzera, informative dei Carabinieri «fatte ad arte», nessun altro collega la cui posizione abbia superato il terzo grado:

Questa inchiesta aveva anche un senso quando era partita. Nel mirino c’era la Gea. Quello era il problema. O meglio, uno dei problemi. Poi hanno voluto fare la virata sugli arbitri. E hanno fatto un casino. […] Se vuole sapere di Moggi e gli altri, penso che ci fossero dei dirigenti che contavano più degli altri. Perché erano più bravi, più forti, più spregiudicati, o forse solo perché le grandi contano più delle piccole. Come oggi».

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