Bangladesh, attacco a Dacca: la storia di Faraaz, musulmano che ha scelto di morire per le sue amiche

04/07/2016 di Boris Sollazzo

FARAAZ, L’EROE DI DACCA –

C’è un musulmano (anzi due) tra le vittime di Dacca, tra le venti persone torturate e trucidate da un commando di giovani alto-borghesi che hanno scelto il terrorismo per ideologia e forse per noia. La loro storia è terribile ma anche dolcissima – la riporta, tra gli altri, Viviana Mazza sul Corriere della Sera -, e al di là del nostro cordoglio per i connazionali morti in questa strage, è giusto ricordarla.

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Faraaz Hussein aveva un fratello minore che adorava e con cui sognava di dirigere l’azienda di famiglia, e una madre a cui era devoto. Era in quel ristorante, quando è entrato il gruppo di fanatici. Si era salvato dal primo lancio di granate. Era uscito per un caffé con due care amiche: Abinta Kabir, americana e musulmana, e Tarishi Jain, indiana. Studenti universitari oltreoceano, ricchi di famiglia, vestivano tutti e tre all’occidentale e tutti e tre sono stati concorrenti del quiz dell’orrore, quella folle richiesta agli ostaggi di recitare il Corano da parte dei loro carnefici.

Faraaz è un credente. Faraaz conosce il Corano. Faraaz in lacrime lo recita, forse più per affidarsi al suo dio che per accontentarli. E i terroristi che stavano seminando paura e odio lì all’Holey Artisan Bakery, gli dicono che può andare. Tortureranno e uccideranno gli altri, ma non un fratello. Ma Faraaz tra loro non ha fratelli: accanto a sé però ha due sorelle, due amiche che non vuole lasciare. Chiede a quegli assassini di poterle parlare con sé, ma le giovani donne quell’esame non l’hanno passato. E i loro vestiti non rispondo agli ottusi dettami religiosi che inquinano il loro cervello. Il diniego è fermo, come la decisione di quel ragazzo, viso pulito e animo limpido. Rifiuta il premio, rimane dentro il ristorante con le donne con cui vi era entrato. I loro tre cadaveri sono stati trovati all’alba dalla polizia, a fine blitz. Su Faraaz gli ultimi segni di una lotta disperata, sulle mani: le aveva difese fino all’ultimo. Lui, che poteva salvarsi.

Una storia terribile ma che ci dice che quel gruppo di terroristi è nemico di tutti: musulmani e cristiani, occidentali e non, religiosi e atei. Ce lo dice Faraaz, ce lo dice sua mamma, residente anche lei nel quartiere di Gulshan. “Darei tutto per avere mio figlio indietro, ma non avrebbe mai perdonato se stesso se avesse lasciato le sue amiche là dentro”.

Faraaz era uno di loro. Vent’anni, studiava business alla prestigiosa università di Emory (come Abinta, Tarishi invece frequentava Berkeley) in America, ma era tornato a casa per il Ramadan. La sua famiglia possiede Transcom, una delle holding bengalesi più grandi e floride, con interessi che vanno dai media all’energia: chissà quante volte ha visto i suoi assassini in locali alla moda o magari nei convegni dei rispettivi genitori.

Miraaj, in lacrime, li ha visti da fuori. Dovevano essere quattro per quel dopocena. Li ha visti da fuori, i tre amici, sorseggiare un caffé. Poi gli spari, qualche istante prima di entrare. E la fuga. Un ritardo di venti minuti che almeno a lui ha salvato la vita.

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