Articolo 18? Noi mai avuto

Vogliono abolire l’articolo 18 dello statuto dei lavoratori. Ecco, per un trentenne di questo paese, non esiste un evento che regali altrettante indifferenza. E il motivo è semplice: l’articolo 18 è un qualcosa che non ha mai riguardato i giovani italiani. Semplicemente perché esistono almeno un’altra quarantina di contratti alternativi (e tutti più convenienti per il datore di lavoro) , e, pertanto, nella stragrande maggioranza dei casi, nessuno offre un contratto a tempo indeterminato.

Diciamolo chiaramente: la battaglia sull’articolo 18 – oggi – appassiona una stretta cerchia di persone, per lo più sopra i 50 anni, e un ristretto giro di giornalisti nostrani. E, ovviamente, i sindacati. Che dell’articolo 18 fanno una bandiera, un punto d’onore, l’ultimo baluardo da non far cadere.

Ma la realtà è che anche e soprattutto i sindacati, ad iniziare dalla CGIL, che ha circa il 50% di iscritti tra lo SPI CGIL, il sindacato dei pensionati (ma perché i pensionati hanno bisogno di un sindacato?), dei problemi dei giovani di questo paese se ne è spesso fregato. Ricordiamo come sulla pelle dei più giovani, grazie all’allora ministro Damiano, fu abolito lo scalone voluto da governo Berlusconi, scaricando i costi di quella riforma sull’aliquota pensionistica dei contratti dei co.co.pro e delle partite iva.

Un chiaro esempio di come sindacati e centrosinistra fecero una precisa scelta, spostando risorse economiche a favore dei più anziani, e a discapito dei più giovani.

Per questo ben venga, soprattutto per chi oggi è magari una “finta” Partita Iva, un contratto a tutele progressive. Un contratto che magari non regalerà mai il tanto discusso articolo 18, ma che consentirà di poter avere il diritto alle ferie, alla maternità, ad un dignitoso ammortizzatore sociale.

Perché, quello che non deve sfuggire è che il mondo del lavoro per il quale lo statuto dei lavoratori fu pensato, semplicemente, non esiste più. Nel 1970 si entrava in un’azienda da giovani, per rimanerci tutta la vita, o quasi. Il nostro è un sistema di ammortizzatori sociali pensate non per tutelare il lavoratore, ma per conservare il posto di lavoro.

Bisogna avere il coraggio di cambiare. Di andare avanti, di accettare la sfida del mondo del lavoro che cambia. Chi scrive nel solo 2014 ha lavorato in tre posti di lavoro diversi. Nessuno ha intenzione di dire che questo sia un fatto positivo, ma questo è il quadro all’interno del quale ci muoviamo. E a questo scenario bisogna adattarsi riscrivendo le garanzie del mondo del lavoro. E’ necessario pensare ad un piano di ammortizzatori sociali che accompagni il lavoratore tra la fine di un lavoro e l’inizio dell’altro. E’ questo il vero obbiettivo sui cui bisogna concentrarsi.

TRA PALCO E REALTA’ – Il rischio, senza questo decisivo bagno di realismo, è quello di lottare per mantenere intanto un sistema di regole che non ha più alcun riscontro con la realtà. Basta farsi un giro in qualsiasi realtà lavorativa italiana per rendersi conto che l’articolo 18 oggi come oggi, è una chimera per chi entra in un’azienda e – soprattutto – oggi tutela circa la metà dei lavoratori dipendenti. Cioè chi lavora in una società con almeno 15 dipendenti.

LE TUTELE – Parliamoci chiaro: l’introduzione dell’articolo a tutele crescenti serve a poco se non è accompagnato da un decisivo disboscamento degli altri contratti “precarizzanti”. L’unico modo in cui questo nuovo contratto può funzionare è quello di eliminare tutti i contratti flessibili esistenti oggi. Questo deve essere chiaro a chi ci governa e a chi si appresta a scrivere il testo normativo. Altrimenti saremmo davanti all’ennesimo presa in giro nei confronti degli under 40 di questo paese.

SACRIFICI – E’ ora, però, di non chiedere solo sacrifici a questa generazione. Ne ha già fatti troppi, rispetto alla generazione di chi è nato negli anni ’50 o ’70. E’ arrivata l’ora che i futuri investimenti decisi dal governo vadano ad aiutare chi – come dimostrano le statistiche – più di altri sta pagando la crisi. Si, siamo noi, i nati negli anni ’70 e ’80.

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