A serious man: un tornado

Una fine di decennio che sempre più convince questa dei fratelli Coen, dopo un inizio di sicuro titubante. Un appuntamento che diventa sempre più assiduo, ma non per questo meno piacevole.

Se devo essere sincero, dopo Ladykillers ho avuto paura di aver perso un pezzo di cinema al quale tengo molto, e con me moltissimi altri. Fortunatamente, dopo un silenzio durato tre anni, i fratelli Coen tornarono. E il loro ritorno è stato rappresentato da tre film uno più bello dell’altro. Un terzetto così compatto da sembrare una trilogia, anche se apparentemente e superficialmente “Non è un paese per vecchi” possa sembrare stilisticamente più distaccato. In realtà scopriamo con questa visione che anche quella pellicola fa parte di un discorso più uniforme e profondo, un sottotesto comune alle tre pellicole, che solletica corde molto intime all’interno dello spettatore e della società in cui vive. E ritorna, oserei dire in maniera ancora più matura e meditata, forse il classico tema e clichè dei Coen. Se i due fratelli hanno fama di creare pellicole in cui “ci si può aspettare che succeda di tutto”, questo si può ricondurre al loro concetto di cinema: il caos. Ovvero Fargo, il Grande Lebowski, ma anche Fratello dove sei e, soprattutto, L’uomo che non c’era. Abbiamo davvero trovato il santo Graal dei Coen?

YIDDISH – La vittima di questa storia è Larry Gopnik. Larry è un ebreo che vive la sua vita in maniera seria e tranquilla. Ha due figli, dei quali uno alle soglie dell’ingresso nella società religiosa, l’equivalente della cresima cattolica (anche se in molti confondono questo ruolo con la comunione). Eppure qualcosa un giorno si rompe. Sua moglie vuole il divorzio, innamorata di un altro, e cerca di rubargli tutto: la casa, i soldi, i figli. Il suo lavoro, professore di fisica, diventa un inferno, tra studenti ingrati e tormenti riguardanti la propria posizione. Ad aggravare ulteriormente la situazione ci penseranno un fratello al limite dell’insanità mentale, vicini ostili, avvocati esosi e ogni possibile avversità che si possa anche solo lontanamente immaginare di mettere in un film (ma d’altronde stiamo parlando di una coppia di registi ben sadica con i propri personaggi). Tutto questo fino all’escalation di un finale che…

GIOBBE – L’interpretazione più facile e immediata di un film assolutamente non facile è quella che riconduce al famoso personaggio biblico. Come Giobbe, infatti, Larry Gopnik si vede vittima di una serie di vessazioni. Non c’è alcun Satana in questo mondo moderno che gliele manda, ma il mondo moderno stesso che nei suoi perversi meccanismi schiaccia e distrugge un po’ a casaccio. Non c’è nessuna volontà distruttiva nei confronti di Larry, e nemmeno una vera prova divina. Tutto scorre in maniera assolutamente normale, il problema è che questo normale prende sempre a ogni diramazione la piega sbagliata. Eppure Larry è inserito in un mondo geometricamente perfetto, il suo vicinato costruito in maniera tecnicamente impeccabile (stiamo parlando sempre dei Coen, uno dei pezzi più pregiati del cinema statunitense). Ma questo mero ingranaggio si è rotto e non è colpa di nessuno se ciò accade. Semplicemente: accade.

CAOS – E’ quindi un’esaltazione del caos. Se in “L’uomo che non c’era” questo caos era una freccia puntata e dritta verso l’assurdo e il paradossale qui ha un andamento più avvolgente e a spirale, come quello che accade attorno ad un tornado. E se in “Non è un paese per vecchi” questo caos era un killer che decideva la vita e la morte dal risultato di una monetina, qui non c’è nemmeno questo significato, nemmeno una volontà malvagia dietro tutto questo (né tantomeno una borsa piena di soldi, una fortuna piovuta dal cielo da difendere). Non ha senso dire che il mondo in cui viviamo si comporta in maniera grottesca, tragica o spietata. Questo perché i Coen ci vogliono dire che il mondo non “si comporta. Il mondo accade, siamo noi che ci viviamo dentro. Siamo noi che abbiamo il disperato tentativo di dargli un significato, di incentrarlo su noi stessi e sul nostro individualismo e leggerlo con tale chiave. Ma il caos è sempre un passo avanti a noi. Ci affanniamo tanto per difenderci da esso, per combattere quello che, secondo noi, ci manda contro, quando non capiamo di doverci solo rilassare e smetterla di caricare contro i mulini a vento.

GRAN FINALE – In questo il finale del film è assolutamente magistrale. Senza rovinare niente, sono rimasto veramente estasiato sia dalla loro scelta di immagine, sia dalla tragica ironia che hanno riversato nello stacco sui titoli di coda. Se siete tornati dal cinema sapete a cosa alludo. Avrete sicuramente visto sgomento nelle facce dei vostri vicini. Forse voi stessi vi siete messi a ridere e avete voi stessi pronunciato la frase “non ci ho capito niente”. Sentendo però un certo senso di inquietudine. Non è vero che non ci avete capito niente. Non è vera l’ironia contro o a favore del film che borbotta la gente uscendo dalla sala. I Coen sono riusciti magicamente a bucare il telo bianco del cinema e a scrivere il finale non sulla pellicola ma sulla testa della gente. Che si ritrova inerme di fronte a quanto appena visto, visione che si trasforma in vissuto. Persone che si trovano a dover affrontare in prima persona il caos generato in una storia di finzione, una presa di concretezza come mai si è vista, che ci parla dei nostri problemi e del nostro caso, piccolo o grande che sia. Un film che forse non sarà mai apprezzato a pieno dal grande pubblico, ma che rappresenta una delle migliori opere di una coppia di registi di culto. Solo i Coen alla domanda che rivolgevo qualche paragrafo fa, se abbiamo trovato il loro santo Graal, potevano rispondere contemporaneamente sì e no. Da veri intenditori del caos.

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