La tratta degli schiavi degli orsetti Haribo: lavoratori pagati 10 euro al giorno e costretti a bere acqua sporca

«Haribo è la bontà che si gusta a ogni età» recita il jingle pubblicitario dell’azienda, cantato dalla voce innocente di un bambino. Invece, dietro alla produzione dei famosi orsetti gommosi – simbolo del noto marchio di dolciumi – c’è un vero e proprio mondo sommerso, svelato da un documentario di 44 minuti prodotto e mandato in onda dalla tv pubblica tedesca Ard.

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ORSETTI HARIBO, ECCO COME VENGONO PRODOTTI

E lo scandalo ci ha messo davvero pochissimo tempo per scoppiare. Sotto la lente d’ingrandimento del documentario ci sono le inumane condizioni dei lavoratori dell’azienda in stanza in Brasile: Haribo, infatti, si appoggerebbe ad alcuni fornitori che trattano i propri dipendenti con metodi da schiavisti. Si parla di una paga vicina ai dieci euro al giorno, di orari devastanti e senza soste, di servizi igienici carenti e dell’acqua sporca che gli stessi lavoratori sono costretti a bere. Il tutto per estrarre da alcune piante la cera di carnauba, utile a rendere lucida la superficie dei famosi orsetti gommosi.

ORSETTI HARIBO, GLI ALLEVAMENTI INTENSIVI DEI MAIALI

Inoltre, gli allevamenti intensivi tedeschi che riforniscono l’azienda sono dei veri e propri lager per i maiali. Gli animali affollano gli impianti e sono trattati malissimo, in condizioni igieniche pietose. È Amnesty International che sta vigilando sulla situazione e che sta sottolineando il fatto che sono le aziende tedesche che devono controllare l’operato dei loro partner internazionali. Pertanto, la Haribo avrebbe enormi responsabilità in tutta la filiera produttiva degli orsetti gommosi.

In un comunicato di risposta, l’azienda di dolci ha detto di non essere a conoscenza di alcuna violazione e che sta effettuando dei controlli per indagare a fondo nella faccenda: «Siamo un’azienda che vuole portare gioia a bambini e adulti – scrivono nella dichiarazione – Non possiamo accettare il mancato rispetto degli standard sociali ed etici».

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