In memoria di Michele Scarponi

«Un destino sbagliato». Ha usato queste parole il presidente della Federazione Ciclistica Italiana, commentando la morte di Michele Scarponi, 37 anni, ciclista della Astana, capitano designato per il Giro d’Italia numero 100. Quello del centenario che Scarponi non ha potuto correre e che si è aperto nel segno della sua memoria, nella maniera più triste.

Un campione discreto, Scarponi, sempre attento ai doveri della squadra, sempre pronto a sfruttare le sue occasioni, ma perennemente dedito alla causa altrui. Come quando nel 2016, in mezzo alla bufera – non solo meteorologica, ma anche dei media – spese anima e corpo per difendere il suo capitano Vincenzo Nibali (poi vincitore del Giro d’Italia di quell’anno), prima dalle critiche della stampa e poi dagli avversari.

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Scarponi ci metteva sempre la faccia e ogni tanto piazzava la zampata vincente. Vinse, senza la soddisfazione di conquistarlo sul campo, il Giro d’Italia del 2011 successivamente alla squalifica di Alberto Contador. L’ultimo trionfo, soltanto qualche giorno prima della sua morte, in una tappa del Tour of Alps, quello che i romantici chiamano ancora Giro del Trentino. Sì, perché sono sempe state le montagne, suo terreno di conquista preferito, a rimpiangerlo più di tutti. Quelle stesse montagne dove ha dato spettacolo, vincendo a Mayrhofen, a Benevento e all’Aprica. Solo per citare i successi nella Corsa Rosa, quella che amò più di tutti.

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L’Aprica, in modo particolare, quella salita che lo unisce – sempre seguendo il corollario di quel «destino sbagliato» – a un altro campione fuggito via troppo presto. Lui era il Pirata Marco Pantani, Scarponi veniva conosciuto da tutti come l’Aquila di Filottrano.

L’incidente tragico sulle sue strade, che non gli ha dato nemmeno il tempo di rendersi conto dell’accaduto, morto sul colpo dopo un impatto con un furgone, forse non sarebbe successo con un pizzico di attenzione in più. In Italia, i pirati della strada uccidono ogni anno almeno 250 ciclisti – secondo una recente statistica che ha portato all’approdo al Senato, meno di un mese fa, del cosiddetto ddl “Salvaciclisti” -, mentre sono quasi 15mila i feriti.Una strage silenziosa, che accade quasi ogni giorno, come una sentenza inevitabile.

In questa storia, c’è stato anche il risvolto doppiamente tragico. L’uomo che investì Scarponi in quel maledetto 22 aprile 2017, non accettò mai il fatto di aver strappato la vita a un uomo e a un campione tanto amato nella sua Filottrano. Il dispiacere lo logorò, fino a non accettare più le cure per il cancro che stava combattendo. Morì meno di un anno dopo rispetto a quello che poteva considerarsi l’enfant du pais, idolo della sua gente, idolo suo.

La storia di Michele Scarponi, che ha pagato il suo impegno e la sua professionalità (era tornato ad allenarsi il giorno dopo il suo rientro in paese, dopo aver appena smaltito le tossine del Tour of Alps), ha avuto anche questo retroscena. Non soltanto quella fatalità disarmante che gli portò via il suo ultimo sogno. Quello di vivere il Giro del centenario da protagonista.

(FOTO: ANSA/Joseph Vaishar)

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