«Io italiano all’estero, dico al ministro Poletti e a voi: parliamo di cose serie»

22/12/2016 di Redazione

Riccardo Briganti, Lecturer alla University of Nottingham, nel Regno Unito, ci inoltra una sua lettera in merito alle dichiarazioni del Ministro Poletti e al dibattito che si è scatenato. Dibattito spesso scaduto su luoghi comuni, sensazionalismo e tifoseria. Una discussione che non è entrata nel merito di un dibattito più lucido, sensato e utile.

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Gentile Direttore, Gentile Redazione di Giornalettismo.com,

Scrivo in merito alle dichiarazioni del Ministro Poletti e il successivo dibattito sull’emigrazione italiana che ne è scaturito.

Il 2016 che sta per lasciarci è stato l’anno in cui la discussione sugli Italiani all’Estero si è trasformata da superficiale a surreale.
Per buona parte dell’anno se ne è parlato in relazione a Referendum sulla riforma costituzionale. In quell’occasione gli Italiani all’Estero sono stati, più o meno esplicitamente, bollati di avere una visione troppo distaccata del Paese, di essere facilmente suggestionabili da lettere di supporto della riforma e la stessa opportunità di far votare questa comunità è stata messa in discussione.

Un mese dopo il Ministro Poletti dichiara di conoscere persone, tra gli espatriati, che è meglio che restino dove sono. La frase ha generato, giustamente, una generale indignazione che noi, dall’Estero, abbiamo potuto osservare esplodere sui social media. Questa esternazione del ministro Poletti è però collocata in un contesto più ampio in cui il ministro contesta la tesi per cui quelli espatriati sono i migliori e che chi resta va rispettato. Quello che Poletti dice è doppiamente surreale. In primo luogo, ironicamente, perché il ministro offende il gruppo che maggiormente ha sostenuto la riforma del Governo di cui fa parte e che ora ne chiede le dimissioni. In secondo luogo il ministro vuole sfatare un mito che esiste prevalentemente nella narrazione dei media per cui “i cervelli” in qualche modo “fuggono” perché non liberi di esprimersi in Italia. La realtà, che il ministro dovrebbe conoscere, è molto più articolata.

Le risposte al ministro che si leggono sui social sono, in molti casi, anche esse surreali perché si torna alla narrazione degli italiani all’Estero (ora di nuovo eroicizzati, non più manipolabili, grazie al cielo) dipinti come persone che contro tutti e tutto escono dal Paese. La narrativa generalizzante che si ritrova nelle parole del Ministro è usata anche per attaccarlo.

Credo che questo sia un circolo vizioso che sia necessario rompere, almeno se si ha a cuore la sorte di chi attualmente lavora all’Estero. L’impressione che ne ricevo è che la generalizzazione con cui è dipinta la situazione risponde solo all’esigenza di creare un’ ennesima aspra polemica e non a quella di conoscere la realtà di un fenomeno che si vuole contrastare.

Il numero dei giovani che lascia l’Italia per lavoro è in crescita e più di 100K connazionali sono emigrati nel 2015 (http://www.chiesacattolica.it/pls/cci_new_v3/V3_S2EW_CONSULTAZIONE.mostra_pagina?id_pagina=84393&rifi=guest&rifp=guest) e con essa la differenziazione delle comunità italiane, che tutti quelli che vivono all’Estero da tempo stanno osservando. Io stesso, nella cittadina di Nottingham, in UK, ho visto un sostanziale aumento di Italiani i quali, se prima arrivavano qui per studio o lavoro connesso all’Università o al Servizio Sanitario (NHS, National Health Service), ora si muovono per lavori che vanno da quelli più qualificati a quelli più umili. Lo stesso accade in alter città in UK e nel Mondo.
I motivi per cui ci si muove sono molteplici. La protratta crisi economica e occupazionale in Italia è senza dubbio ancora il motore dell’emigrazione. Spesso si accetta un lavoro umile, probabilmente rifiutato in Italia, perché si ha l’impressione che mentre a casa si tratterebbe di un punto di arrivo, altrove potrebbe essere un punto di partenza. Accanto a questa immigrazione c’è la percezione, in una generazione che cerca di usare la globalizzazione a proprio vantaggio, che si cerca lavoro su scala mondiale. Per molti professionisti, a tutti i livelli di carriera, la scelta non è più tra la città del Nord e rimanere nel capoluogo di provincia. È tra Londra, Singapore e Los Angeles. L’Unione Europea ha creato enormi opportunità di lavoro nei paesi membri e spostarsi non è un problema insormontabile. I giovani che si trovano nelle città europee si trovano a contatto con culture diverse ma in condizioni economiche e regole del mercato del lavoro che sono le stesse dei nativi del luogo o altri stranieri che sono lì per lo stesso motivo. Purtroppo il processo di ricerca del lavoro non è facile per nessuno al momento.

In questa molteplicità di situazioni, in cui non esistono eroi o vittime, ma giovani che cercano di affermarsi, esattamente come chi rimane, dobbiamo impostare il dibattito in termini più utili. Cosa vogliamo che succeda con l’emigrazione? Vogliamo fermare e magari invertire la tendenza? Se sì cosa vogliamo fare perché oltre a Londra, Singapore e Los Angeles ci sia Roma o Milano? Riusciamo a riflettere serenamente sul fatto che la facilità di impiego all’Estero è anche frutto di meno burocrazia e, spesso di meno garanzie?

Inoltre affinché questa sia una discussione con uno scopo e non l’ennesima esternazione umorale, c’è un problema più immediato per chi vive in UK, e potenzialmente per altre realtà europee. Che cosa succederà ai tanti Italiani tra qualche anno, quando l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea metterà a rischio centinaia di migliaia di posti di lavoro Italiani, saranno a rischio? Nessuna sparata ministeriale o narrativa eroico-vittimista dei media risolverà il problema. Una discussione responsabile ha molte più chance.

Riccardo Briganti
Lecturer at the University of Nottingham, UK.

P.S. Tutte le opinioni espresse sono personali

(ANSA / MATTEO BAZZI)

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