La vigilia del No della minoranza di Bersani al referendum (aspettando la Direzione Pd)

07/10/2016 di Alberto Sofia

La vigilia dello strappo si consuma al Nazareno senza pathos. Quasi nell’attesa, lenta, degli eventi. Se a parole c’è chi considera ancora l’attesa Direzione Pd come l’ultima occasione per evitare l’implosione al Nazareno sul referendum costituzionale, in realtà, il tempo delle mediazioni sembra ormai finito. Scaduto, almeno per la minoranza di Pier Luigi Bersani e Roberto Speranza. In attesa che anche Gianni Cuperlo sciolga le ultime riserve.

«Giochi finiti, un accordo è impossibile», ammettono dalla vecchia Ditta Giornalettismo dalla sede nazionale del Partito democratico, dove le diverse anime si sono ritrovare insieme per l’iniziativa “Una nuova economia, una nuova sinistra“, con Vincenzo Visco, il sottosegretario De Vincenti e la leader Cgil Susanna Camusso. A pochi giorni dal passaggio decisivo in Direzione, non pochi parlamentari ammettono come la decisione sia ormai, di fatto, già presa. Tradotto, al di là di quel che dirà Matteo Renzi al parlamentino dem lunedì prossimo, la minoranza Pd strapperà. E annuncerà dopo il vertice nazionale del partito la scelta di sposare la linea del No nello spartiacque della legislatura, come già minacciato nelle scorse settimane da Pier Luigi Bersani e Roberto Speranza. E come già deciso da Massimo D’Alema, l’ex premier che per primo si è intestato la battaglia contro la riforma costituzionale in casa dem.

MINORANZA PD PRONTA A UFFICIALIZZARE IL NO AL REFERENDUM COSTITUZIONALE

Tradotto, la madre delle battaglie renziane sarà, di fatto, un antipasto del Congresso Pd. Perché per le diverse anime della sinistra del partito, seppur con sfumature diverse, per trovare una sintesi «siamo ormai fuori tempo massimo». I più intransigenti, certo, restano i bersaniani. Al contrario dei cuperliani ancora in un limbo, infinito. Rincorrendo una pax in extremis, nella strategia del consueto attendismo. Ma tra i parlamentari, spiegano dal Nazareno, «il 90% ha ormai già scelto che voterà contro». Tanto che fedelissimi dell’ex segretario Bersani, come i senatori Miguel Gotor e Federico Fornaro, lasciano intendere di non aspettarsi nulla o quasi da Renzi, dopo aver contestato le aperture timide sulle modifiche all’Italicum, così come la mozione approvata alla Camera troppo vaga, incerta sui tempi. 

«Aspettiamo quel che dirà Renzi in Direzione, ci sono dei tempi e dei passaggi da rispettare. Ma mi sembra che il tempo sia ormai scaduto. Noi abbiamo chiesto a gennaio la nuova legge per il Senato e presentato ai primi di luglio la proposta del Mattarellum 2.0. Non siamo noi ad aver perso tempo», incalzano. Non sono gli unici. Ma di fronte alle telecamere i toni restano ancora morbidi. Attendisti Con lo stesso Roberto Speranza che resta in silenzio sul tema referendum. «Oggi non voglio parlare di referendum, parliamo di economia. La questione istituzionale non basta, si deve ripartire dalla questioni sociali. E sarebbe sbagliata una legge di stabilità da propaganda elettorale, sul sistema dei bonus», provoca Speranza. Ma non intende esporsi troppo prima del tempo. Quasi a voler pure smontare la tesi renziana secondo cui la minoranza ha sempre giocato al rialzo, sfruttando il voto del referendum soltanto per affossare Renzi e la sua leadership. Bersani invece non si presenta all’iniziativa della minoranza dem. Ma soltanto perché, spiegano, “impegnato in un confronto a Piacenza con Giuliano Pisapia“. Così procede, come in una liturgia stanca, il coro delle dichiarazioni d’attesa di fronte ai microfoni, prima del vertice decisivo del partito. I “vedremo”, gli “aspettiamo che quel che dirà il segretario“, i “vogliamo un segnale politico da Renzi“. Quello stesso segnale che, sono certi in realtà i bersaniani, resterà un’utopia. o comunque una promessa non mantenuta.

IL DILEMMA DI CUPERLO

«Renzi? Ha cambiato sempre le carte in tavola. Prima dice farà una proposta, poi smentisce e dice che la devono fare gli altri. C’è un po’ di nervosismo forse», si attacca dietro le quinte. E c’è già chi prevede una conferenza stampa, per annunciare la rottura definitiva. Al termine del vertice, o nei giorni che seguiranno una Direzione che, è convinta la Ditta, sarà soltanto una nuova cassa di risonanza per Renzi: «Sarà Roberto (Speranza, ndr) a spiegare le ragioni della nostra scelta», spiega un fedelissimo di Bersani. Una decisione già presa, tanto che c’è anche chi si lascia sfuggire, tra il sarcastico e l’imbarazzato: «Boschi dice che la legge dei senatori si farà subito dopo il referendum? Meglio non parlarne, a questo punto quasi rischia di rimettere le carte in gioco…».  

RENZI E LA STRATEGIA DEL “DIVIDE ET IMPERA”

Anche perché, non tutta la minoranza ha scelto se e quando strappare. Come la Sinistra dem di Gianni Cuperlo, che tiene ancora aperto il dialogo con i vertici. «Vero, c’è una distanza tra le nostre posizioni. Ma non ne comprendo il motivo. La realtà è che Cuperlo non vuole la candidatura di Speranza…», c’è chi provoca dalle fila bersaniane. Un segno di come l’unità delle minoranze sia tutt’altro che solida. E come il gioco delle correnti e dei rimescolamenti sia già in corso, in attesa del Congresso futuro. Renzi lo sa. E non è un caso che il tentativo della segreteria sia ancora quello di spezzare l’unità delle diverse anime e correnti della minoranza.

Divide et impera“, “Dividi e governa”, come ai tempi dell’Italicum, del Jobs Act e non solo. La richiesta di Cuperlo e dei suoi ai vertici resta, alla vigilia della Direzione Pd, quella di un “atto concreto”. Come quello di «incardinare in Parlamento una nuova legge che superi i limiti dell’Italicum e riapre il confronto». Come? Verso un modello ancora rilanciato dallo stesso ex presidente del partito: «Recuperare la rappresentanza, collegi uninominali, un premio di maggioranza che incentivi la governabilità ma non mortifichi la rappresentanza stessa». Senza dimenticare il ballottaggio contestato, sul quale nessuno crede che Renzi, realmente, cederà. «Ma chi è che lo vuole? Nessuno, a parte il premier. Ne prenda atto», rivendica il deputato Andrea  Giorgis. Un altro di quelli che ancora spera in un’intesa dell’ultim’ora, tanto da suggerire: «Si può riaprire il nodo Italicum in Commissione Affari costituzionali». 

INCOGNITA MATTEO RENZI

Eppure la strada del No al referendum è ormai imboccata da gran parte delle truppe parlamentari della minoranza dem. A meno che Renzi, con una mossa delle sue, non decida di sparigliare, andando incontro alla richieste della minoranza. Certo è che il segretario stesso intenda far uscire allo scoperto Bersani, Speranza e la minoranza ormai pronta al No, nel tentativo di bollare lo strappo come pretestuoso. Non come una scelta “di merito”, ma soltanto in chiave antirenziana. Una linea di rottura totale, tra il Pd renziano e la vecchia Ditta, che poco piace allo stesso Giorgio Napolitano, l’ex capo dello Stato che resta l’architetto delle riforme costituzionali. Il vero regista. Aveva suggerito al premier di abbassare i toni, cambiare la legge elettorale contestata ed evitare di far schiacciare tutta la linea della minoranza sulle posizioni “incendiarie” di D’Alema. Poco è stato fatto. E ora per la rottura ufficiale, ormai, sembra questione di ore. 

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